Sulla relazione fra informazione e lotta alla criminalità organizzata, che semplificheremo con il termine mafia e informazione, Ossigeno ha intervistato otto giornalisti, un teologo e un avvocato penalista con vasta esperienza accademica, parlamentare e nel CSM. Due giornalisti, Belpietro e Sallusti, sono direttori di giornali, gli altri sono cronisti di nera e giudiziaria e di fatti di mafia. L’informazione – affermano tutti gli intervistati – riveste un ruolo fondamentale nella lotta alla mafia. Tutti concordano sulla necessità di tenere alta l’attenzione sul tema, anche se indicano modalità diverse di declinare l’attenzione giornalistica. Con schiettezza, al di là del loro orientamento politico, i due direttori interpellati indicano il cuore del problema, che riguarda proprio le modalità di trattazione dell’argomento. Entrambi spiegano che i giornali hanno una loro logica editoriale e di mercato che varia in base al pubblico di riferimento (i lettori), all’editore (linea editoriale) e al territorio di diffusione e dicono che questi fattori incidono sul livello di attenzione dedicato ai fatti di mafia. Vi è, fra gli intervistati, una sostanziale unanimità di giudizio sul fatto che l’attuale legislazione sulla diffamazione rappresenti un serio problema , in particolare perché consente l’uso delle querele come strumento di intimidazione nei confronti del lavoro giornalistico. Tutti chiedono la depenalizzazione della diffamazione, a eccezione di Enrico Bellavia di Repubblica che inverte i termini delle questione chiedendo invece di abolire il procedimento civile o di consentirlo soltanto dopo il processo penale. Il direttore Sallusti, pur favorevole alla depenalizzazione, difende la previsione della pena del carcere per i giornalisti nei casi in cui sia manifestamente provato il dolo grave nella lesione della altrui reputazione, una trasgressione che egli distingue dalla diffamazione. Sulla pubblicazione delle intercettazioni le posizioni appaiono più articolate. Sallusti si distingue per una posizione estrema: propone di bruciare le intercettazioni irrilevanti lasciando mano libera per la pubblicazione del resto. Invece Belpietro e quattro cronisti chiedono sostanzialmente mano libera, purché sia rispettata la privacy del cittadini in base ai principi etici; alcuni chiedono la separazione degli elementi rilevanti da quelli irrilevanti ai fini processuali con diverse gradazioni.

Secondo gli intervistati, il ruolo incisivo dell’informazione nella lotta alla criminalità organizzata deriva dalla natura e dalle caratteristiche che storicamente le mafie hanno rivelato in vari momenti e contesti. Belpietro e Sallusti sottolineano che i giornalisti devono informare, non possono sostituirsi ai magistrati e, con sfumature diverse, che il cronista non deve diventare un “professionista dell’antimafia”, considerando tale atteggiamento dannoso per la stessa lotta alla mafia. “Io faccio giornalismo e non faccio lotta alla mafia – sostiene il direttore de Il Giornale – non faccio l’investigatore, non faccio il sociologo, non faccio il politico e ritengo che la mafia interessi la mia attività soltanto ed esclusivamente quando va ad intrecciarsi con cose che interessano al mio pubblico. Ad esempio quando la mafia o la ‘ndrangheta si infiltrano nell’Expo di Milano”. Sallusti e Belpietro, sottolineano l’importanza di focalizzare il fenomeno mafioso quando si intreccia con la politica, con l’imprenditoria e “con la vita quotidiana della gente”. Entrambi concordano sul fatto che nel Mezzogiorno si scrive molto più di mafia, giustamente, perché essa lì non è soltanto cronaca giudiziaria, ma attiene ai comportamenti della vita quotidiana ed è ovvio che i giornali locali siano molto più attenti, e quindi anche più esposti.

Maurizio Belpietro mette in evidenza un aspetto del rapporto tra informazione e attività investigativa: “In altri paesi le indagini sono molto più riservate. In Italia c’è un’attenzione particolare sulle attività investigative con ampie anticipazioni da parte della stampa. In questo modo, però, si rischia di far naufragare le indagini, come è accaduto in passato, di bruciare o deformare piste investigative.”

Per Salvo Palazzolo, di Repubblica, il problema principale è riuscire a inquadrare le dimensioni del fenomeno e le sue dinamiche. “In questo momento Cosa nostra è in una fase di evoluzione e ci sono molte cose che non riusciamo a vedere”. Palazzolo sottolinea la rilevanza dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Espone le difficoltà del sistema dei media a spiegarla bene al pubblico. A suo avviso, “una certa stampa è più impegnata a bacchettare i pm di questa indagine che a seguire i processi e spiegare il merito delle vicende”.

Arcangelo Badolati, giornalista della Gazzetta del Sud, conosce da vicino le dinamiche delle cosche calabresi e sottolinea la necessità di approfondirle. Il cronista descrive come le famiglie malavitose si siano evolute, facendo studiare i figli dei boss che spesso sono diventati colletti bianchi e asse portante della nuova veste imprenditoriale della mafia. Per i giornalisti, dice, i problemi nascono quando l’informazione si scontra con le pressioni del potere. Secondo Badolati in Italia – al contrario di quanto accade in altri paesi – non ci sono “cuscinetti di protezione” per i giornalisti per difenderli dalle pressioni del potere politico. Sottolinea altri punti delicati: la debolezza complessiva del sistema editoriale in Calabria e il fatto è che a scrivere di criminalità organizzata, soprattutto nel Mezzogiorno, spesso sono collaboratori precari o freelance senza contratto e senza alcuna tutela legale e assicurativa, quindi più facilmente ricattabili. Badolati coglie un altro aspetto della ‘ndrangheta, riconosciuta come la più potente struttura malavitosa internazionale. Essa non ha mai cercato lo scontro frontale con il potere, al contrario della mafia siciliana che ha ucciso e sparato su decine di rappresentanti delle istituzioni e della stampa. “La Calabria – afferma – è diventata un fenomeno mediatico dopo la strage di Duisburg, che è stato il più grave errore commesso dalla ‘ndrangheta quando ha consentito al resto dell’Europa di accorgersi dell’esistenza di questa criminalità feroce”. Il cronista ribadisce l’importanza di condurre inchieste e indagini giornalistiche sulle vicende di mafia e cita, fra gli altri, la rivelazione di un pentito secondo il quale navi cariche di scorie tossiche erano state affondate vicino alla costa calabra. Un pentito – racconta – aveva riferito un mucchio di frottole al solo scopo di accreditarsi presso il servizi di protezione. Fu smascherato da una scrupolosa inchiesta giornalistica.

Enrico Bellavia, giornalista di punta di Repubblica, mette in guardia i colleghi rispetto ai momenti di “stanca”. “Normale – sostiene – che si parli di mafia a fronte di arresti eccellenti o omicidi efferati, il problema è quando tutto sembra calmo. Quando la mafia è silente – prosegue – non si percepisce il pericolo, ed è in questa fase che prospera e fa affari”. Per dimostrare la capacità del giornalismo di chiarire fatti controversi cita un episodio: alcuni cronisti hanno scovato un boss in un paesino dell’Emilia Romagna. Secondo il sindaco l’uomo conduceva una vita tranquilla, ma le inchieste giornalistiche hanno dimostrato che aveva un tenore di vita esagerato rispetto al reddito e che riciclava denaro. Anche Bellavia cita il tema della trattativa Stato-mafia come uno dei casi in cui il giornalismo rallenta la sua attenzione, perché la questione tocca “nervi scoperti”, ossia livelli di contiguità, se non di collusione, fra ambienti politici e mafiosi. “Il tema disturba molto l’establishment, quindi se ne parla sempre meno”, conclude. Il cronista di Repubblica fa notare ancora come la funzione dei giornalisti sia determinante per sollecitare l’intervento degli inquirenti e dei magistrati. “Spesso accade che si scriva di fatti molto importanti: allora viene aperto un fascicolo giudiziario che si nutre del lavoro giornalistico, ma accade anche che rimanga aperto contro ignoti fino alla scadenza dei termini di legge per poi venire archiviato.” Enrico Bellavia concorda con gli altri intervistati sul ruolo importante della stampa locale, ma ne sottolinea anche le debolezze. “Troppo spesso i piccoli giornali locali sopravvivono aggrappati alle mammelle della politica” e, quindi, non hanno piena autonomia”.

Davide Milosa, del Fatto Quotidiano, condivide le analisi di Bellavia e aggiunge una interessante riflessione sugli altri paesi europei. “La criminalità organizzata è sempre più presente in Europa, ma quasi tutti gli altri Paesi sono arretrati da un punto di vista legislativo nei confronti delle associazioni mafiose, non sono attrezzati come l’Italia. Nell’ultimo periodo ci sono state inchieste che hanno rivelato come la criminalità italiana si stia sviluppando in Europa in maniera molto forte, ma in quei Paesi la consapevolezza del fenomeno criminale da parte dell’informazione locale è bassissima”. Un modo per dire che in Italia la mafia l’abbiamo in casa, ma abbiamo anche gli strumenti sia per vederla che per combatterla.

Padre Mario Torcivia è docente di teologia spirituale presso l’istituto San Paolo di Catania ed ha sostenuto la “positio” nella causa di beatificazione di Don Pino Puglisi, vittima di mafia. Il sacerdote offre una lettura sociologica e antropologica. Secondo Torcivia sotto il profilo culturale la mafia è una visione della vita che, in modo trasversale, può pervadere la società. In realtà sarebbe più giusto parlare di una subcultura mafiosa che però agisce sull’individuo sin dalla sua infanzia. “C’è la comunità-Stato – spiega – e poi c’è un’altra comunità che ha altri stilemi culturali e qui lo Stato non entra. Sono come mondi paralleli che non si incontrano, anche se sono contigui. Come mai? Perché questa situazione per cui lo Stato appare disattento? La politica, le amministrazioni locali non devono più investire risorse pubbliche nei quartieri chic, mentre le periferie mancano dell’essenziale, non hanno i servizi pubblici, le piazze, i centri di socializzazione. A Brancaccio, il quartiere in cui operava don Pino Puglisi, non c’era neppure una scuola media. Fu costruita soltanto dopo la battaglia data da lui. Quale cultura producono questi vuoti, queste assenze? In questi ambienti la mafia nuota: offre lavoro, soldi, protezione, assistenza, prospettive, perfino identità di individuo. Se le cose stanno così, perché la gente delle periferie dovrebbe credere nello Stato e dare a esso fiducia?”.

Tutti gli intervistati concordano che il ricorso alle querele per diffamazione costituisce nella stragrande maggioranza dei casi uno strumento di pressione nei confronti dei cronisti. Vi è una assonanza generale nel riscontrare come la maggior parte delle querele non abbia séguito, ma esse, di fatto, formano un cappa che “frena” l’azione del cronista. Questo accade soprattutto quando i giornalisti devono affrontare in proprio le spese di difesa legale, non prevista dal contratto di lavoro. Free lance, collaboratori, pubblicisti che si trovano a maneggiare temi “scottanti” o semplicemente “fastidiosi”, sono molto più esposti all’effetto intimidatorio delle querele strumentali e infondate non avendo alle spalle uffici legali né impegni di copertura delle spese da parte degli editori.

Milosa dimostra come, a volte, le querele siano molto più che azioni giudiziarie: “Quando una querela giunge da mafiosi che sono al 416 bis, quella non è una semplice azione legale ma un modo terribilmente serio per dirti ‘fai attenzione”.

Badolati racconta la sua esperienza con Niccolò Messina Denaro, cugino del noto boss. Il giornalista della Gazzetta del Sud aveva individuato la sua presenza in Calabria e descritto alcune relazioni particolari fra la Sicilia e la Calabria che ruotavano intorno al personaggio. Fu perciò querelato. “A fronte di una richiesta di archiviazione dei pm, un magistrato mi ha rinviato a giudizio ritenendo che avrei diffamato il cugino di Messina Denaro”. “La denuncia per diffamazione – aggiunge – fa paura, è il metodo classico usato da imprenditori in odor di mafia, da mafiosi conclamati, da politici corrotti o finiti sotto inchiesta, per impedire ai giornalisti di fare il proprio lavoro e per intimorire gli editori”.

Maurizio Belpietro dice che ormai il numero delle querele nei suoi confronti è diventato impressionante e aggiunge: se è vero che spesso sono dovute a errori o eccessi dei giornali, è anche vero che nella maggior parte dei casi si tratta di procedimenti pretestuosi che servono a intimidire e far tacere le critiche. Belpietro si sofferma anche sulla inconsistenza di molte cause che arrivano addirittura in Cassazione anche quando l’oggetto della lite è soltanto un aggettivo o una sola frase. Il direttore si sofferma sulle “catene” di responsabilità. Accade, dice, che “diamo una notizia ripresa dalle agenzie di stampa o da comunicati e siamo chiamati a risponderne”. Si dice scettico sulla possibilità di una buona riforma legislativa: “perché i politici non amano i giornalisti che li mettono tutti i giorni alla berlina. Ricordo che già alla fine degli anni novanta Luciano Violante avanzò una proposta per disciplinare le querele normando il diritto di rettifica”.

Enrico Bellavia di Repubblica ritiene inadeguato il rito civile per i casi di diffamazione perché non consente il contraddittorio diretto fra le parti. Il cronista di Repubblica, unica voce fuori dal coro, vorrebbe che il tema della diffamazione fosse competenza esclusiva del procedimento penale o almeno che il procedimento civile si potesse svolgere soltanto “dopo” l’esito di quello penale e non, come accade adesso, con due processi autonomi e paralleli, a volte con esiti discordanti. “Oggi c’è il paradosso che si può essere assolti nel penale e condannati nel civile. Che senso ha? Sei assolto dove viene verificata l’attribuzione del fatto e condannato a prescindere dall’attribuzione del fatto”. Il giornalista di Repubblica inserisce, sul tema della diffamazione, anche il problema della smentita: “Non è possibile inserire la smentita con la stessa evidenza del pezzo originario perché le scalette e i temi cambiano giorno per giorno, così come le priorità delle pagine”.

Il direttore Sallusti individua due temi aggiuntivi in materia di diffamazione. Il primo riguarda il “mercanteggiamento” che si sviluppa attorno alle querele. “Arrivano citazioni per milioni di euro e poi su invito del giudice si scende subito a qualche decina migliaia di euro e lì si fa una trattativa con i giornali che cercano un accordo per evitare le spese legali”. Secondo il direttore de Il Giornale, c’è qualcosa che non funziona in questo meccanismo dal quale troppe persone traggono un tornaconto. Il secondo punto individuato da Sallusti è la responsabilità del direttore per “omesso controllo”, che verrebbe risolta soltanto in parte dalla riforma della diffamazione in discussione in Parlamento. Una volta i giornali erano fatti di sedici o diciotto pagine e con pochi redattori. “Oggi abbiamo giornali da sessanta pagine, i dorsi locali, gli inserti, i magazine, l’online, e poi redazioni con decine e decine di cronisti. Impossibile leggere e controllare tutto”. Il direttore si sofferma sul suo caso personale. “Io ero stato condannato sei volte e alla settima sono stato definito “delinquente abituale”, mentre per altri direttori che hanno diciotto o ventuno condanne tutto come se niente fosse”. Quindi maglie troppo larghe per la magistratura giudicante e leggi troppo vecchie che non fanno i conti con i modi di produzione contemporanei dei giornali.

È opinione prevalente che il regime delle intercettazioni telefoniche sia fin troppo normato nella legislazione attuale. A esclusione dei due direttori, tutti gli intervistati concordano.
Alcuni distinguo vengono da Arcangelo Badolati che ribadisce la necessità di regolare la materia soprattutto applicando il codice deontologico della categoria per rispettare la sfera privata dei cittadini: “Non vanno pubblicate cose non attinenti alle vicende giudiziarie”.

Maurizio Belpietro si sofferma sull’eccesso di pubblicazioni pruriginose. “A volte si è cercato di suscitare la morbosità dei lettore”, ma la posizione più interessante appare quella di Alessandro Sallusti: netto sugli eccessi delle intercettazioni e netto sulla necessità di lasciare libertà di scelta ai direttori. Per il direttore de Il Giornale, “lo Stato deve utilizzare le intercettazioni solo per le parti che riguardano le ipotesi di reato, il resto andrebbe bruciato”. E ciò perché vanno rispettate la dignità e la riservatezza di tutte le persone, comprese quelle che commettono reati, “dopodiché – aggiunge – le parti rilevanti possono anche essere segretate ma se il giornale ritiene che esse siano utili per la pubblica opinione allora non vi può essere una legge che lo impedisce”. Tutti gli intervistati ritengono sia giusto pubblicare notizie relative a comportamenti illeciti. Le notizie sono notizie e vanno date, purché i fatti siano rigorosamente verificati e controllati, facendo attenzione, sottolinea Sallusti, a non confondere mai il ruolo del giornalista d’inchiesta con quello dell’investigatore.

Per Davide Milosa è difficile evitare le minacce per i cronisti che approfondiscono i temi di mafia. “Per fortuna in Calabria non hanno ancora ammazzato nessuno”, commenta a proposito dei giornalisti sotto scorta. Per il cronista del Fatto Quotidiano una norma che sanzioni l’ostacolo alla libertà di informazione rischierebbe di diventare un reato di opinione difficile da gestire nel marasma delle norme giuridiche italiane.

Secondo Maurizio Belpietro il segreto professionale è controverso perché il magistrato può costringere il giornalista a rivelare la fonte minacciando il carcere, mentre si dice favorevole a norme per “intralcio a informazione” così come in molti paesi c’è quella per “intralcio alla giustizia.”

Sallusti è sulla linea dura: mai parlare, mai cedere a costo di andare in prigione, ma – aggiunge – i magistrati sanno che sarebbe controproducente per loro. Il direttore de Il Giornale non ritiene utile nuove norme del codice penale su “ostacolo all’informazione”. “Basterebbe applicare quelle che ci sono. Certo, le querele temerarie sono un reale ostacolo all’informazione”.

Salvo Palazzolo offre una riflessione importante sulle nuove dinamiche mediatiche delle organizzazioni criminali. Secondo il giornalista di Repubblica oggi la mafia soffre di più i giornalisti, ma invece di sparare cerca di raccontare la sua verità cercando di insinuarsi all’interno del sistema dei media o comunque di far veicolare informazioni e interpretazioni della realtà “utili” ai suoi interessi. Il tema del conflitto di interessi entra nella discussione sul rapporto fra informazione e mafia per quanto riguarda il pluralismo delle fonti di informazione. Tutti gli intervistati concordano che il pluralismo sia un elemento vitale per una buona e completa informazione sulla criminalità organizzata.

Il direttore del Giornale la butta in politica definendo “gigantesco” il confitto di interessi nel nostro paese. Per Sallusti, tuttavia, ci si è concentrati sempre e soltanto su Berlusconi per motivi di battaglia politica, non vedendo tutto il resto. “Il Corriere della Sera – sostiene – è proprietà della principale banca e della principale industria d’Italia così come a Roma il giornale più importante è del principale costruttore della capitale, e di esempi ce ne sono tantissimi”.

In merito ai tanti giornalisti sotto scorta Bellavia fa notare che si tratta di coloro che seguono non tanto i fatti di cronaca in sé, ma che si sono concentrarti sugli aspetti finanziari, sui patrimoni illeciti, sulle fortune improvvise, colpendo in questo modo non soltanto i boss ma anche le propaggini familiari e i loro sostenitori, spesso intestatari dei beni. Il giornalista di Repubblica non è tenero con la sua categoria e infatti, a proposito del segreto professionale, sottolinea: “A volte i giornalisti usano il segreto sulle fonti per coprire affari poco chiari. Ci sono giornalisti che hanno fatto davvero i procacciatori di escort o i corruttori”.

Gli intervistati formulano proposte operative per arginare le minacce. Francesco La Licata propone alla Commissione Antimafia di “instaurare un rapporto fisso con i giornali. Quella delle audizioni è una strada. È bene avvalersi di consulenti giornalisti. Istituzionalizzare un contatto permanete con giornalisti che si occupano di queste cose”. Salvo Palazzolo invoca “pool di specialisti e avvocati a sostegno dei giornalisti e norme contro le querele temerarie.” Badolati parla di battaglia culturale per “isolare certa gentaglia, nella politica, nelle istituzioni, nell’economia”. Argomento simile viene usato da Davide Milosa per il quale “una maggiore consapevolezza della società civile creerebbe un “cordone di sicurezza” attorno ai cronisti che si occupano di mafia”. Enrico Bellavia sostiene che “il giornalista rischia tantissimo quando dà l’impressione di avere qualcosa di molto importante da scrivere, quando sembra sia depositario di un segreto unico. Allora si rischia di essere ammazzati.” Propone di “fare rete” tra i colleghi più esposti e anche fra testate diverse superando gelosie e diffidenze. “Non sei più solo quando la notizia circola, se non la pubblica chi è minacciato o il giornale di chi è minacciato, ma la pubblicano anche gli altri”. Sul crescendo di minacce Sallusti introduce il tema del web. “Oggi internet è una gigantesca cassa di risonanza del nostro lavoro. Prima ti leggevano solo i lettori del tuo giornale, oggi tutti possono leggere quello che scrivi o trovare quello che scrivi di loro, e questo aumenta enormemente l’esposizione”. Dalle interviste emerge un messaggio univoco per la Commissione Parlamentare Antimafia: più trasparenza, più accesso agli atti e anche un ruolo più attivo nella comunicazione dei propri lavori e dell’enorme mole di materiali che l’istituzione, da tutti valutata positivamente, ha a disposizione. Per Salvo Palazzolo la Commissione dovrebbe monitorare la stampa di settore ed essere soggetto promotore di iniziative culturali. Concetto analogo quello di Arcangelo Badolati che specifica: “L’Antimafia dovrebbe attuare continui confronti non solo con i magistrati, che è un fatto molto tecnico, ma con uomini dell’informazione che hanno conoscenza diretta del territorio”. Il direttore Belpietro sollecita la Commissione a farsi promotrice di un diverso ordinamento sulla diffamazione, mentre Davide Milosa chiede che tutti i documenti siano desecretati e che sia concesso il libero accesso a tutti gli atti e agli archivi, sottolineando come perfino “gli stessi parlamentari non hanno accesso a tutti i documenti.” Anche Sallusti ritiene che debbano essere a disposizione del pubblico nel modo più trasparente possibile i risultati del lavoro della Commissione. Per Bellavia l’istituzione parlamentare dovrebbe desecretare gli atti e svolgere una intensa attività di informazione con bollettini periodici e convegni. “Ha a disposizione una mole enorme di materiali – afferma – ma tutti scollegati. Ci dovrebbe essere un portale dove questi dati si incrociano evidenziando il disegno strategico del lavoro della Commissione. E invece il problema è che spesso le audizioni sono disponibili soltanto nei resoconti, se non vengono fatte in seduta segreta. Non c’è un lavoro di catalogazione delle informazioni istituzionali”. E aggiunge: “Oggi l’attività antimafia viene fatta da numerosi organismi statali che però non si parlano tra di loro. Le segnalazioni dell’Uif (l’Unità di informazione finanziaria della Banca d’Italia) non sono aggregate. Negli Usa tutto ciò che non è segreto è disponile, senza particolari regole di accreditamento e non limitato ai giornalisti. Qui alcuni portali pubblici hanno l’accesso per i giornalisti e altri per il pubblico. Non capisco la differenza, visto che il diritto di essere informati è del cittadino”. In conclusione, da tutti gli intervistati giunge un invito pressoché unanime e corale affinché i materiali e gli elaborati della Commissione parlamentare antimafia siano valorizzati e resi più fruibili per un pubblico più vasto, condizione necessaria per ampliare e sostenere una informazione accurata e precisa sul fenomeno della criminalità organizzata.