La maggior parte delle minacce e intimidazioni sono rese possibili dai seguenti fattori:

  •  l’impunità di chi intimidisce i giornalisti
  •  l’isolamento e l’oscuramento dei minacciati
  •  l’uso strumentale della legge sulla diffamazione
  •  i processi civili per richieste illimitate di danni
  •  il riconoscimento parziale del segreto professionale
  •  la mancata copertura delle spese legali per molti giornalisti, e in particolare per coloro che svolgono lavoro precario

Per affrontare questi problemi sono necessarie, fra l’altro, riforme legislative nelle quali si discute da molti anni. Riforme a costo zero, che si potrebbero approvare prima del termine della legislatura.

In Italia, a differenza dei principali paesi occidentali e a dispetto delle raccomandazioni del Comitato dei diritti umani dell’ONU, del relatore speciale delle Nazioni Unite per la promozione e la protezione della libertà di opinione e di espressione e delle direttive europee, la diffamazione a mezzo stampa è ancora un reato penale, ed è punita con la detenzione da uno a tre anni. La qualificazione penale di queste violazioni e la loro sanzione con il carcere ormai sono previste solo nei paesi autoritari. L’eventualità che in Italia un giornalista subisca una pena detentiva non è remota, anche perché a volte la condanna viene inflitta senza concedere la sospensione condizionale della sua applicazione. È avvenuto diverse volte. I casi più noti sono le recenti condane di Stefano Surace nel 2001, Lino Iannuzzi nel 2002, di Massimiliano Melilli nel 2004 e di Walter Nerone e Claudio Lattanzio nel 2011 (Cfr. http://www.ossigenoinformazione. it/?s=chieti).
La condanna di Melilli suscitò la reazione della FNSI e di organismi internazionali quali l’OSCE e Reporters Sans Frontières, che rivolse un appello al ministro della Giustizia affermando: “se la parte che si ritiene diffamata ha evidentemente diritto di ottenere un risarcimento, è impensabile che un giornalista possa essere messo in carcere per avere scritto un articolo in uno dei paesi fondatori dell’Unione europea”, ha dichiarato l’organizzazione internazionale per la difesa della libertà di stampa.

Attualmente le leggi italiane permettono a chiunque di querelare per diffamazione o di citare in giudizio per danni il giornalista e il suo giornale, anche in assenza di presupposti di fatto. Chi ne approfitta strumentalmente se la cava a buon mercato, anche se – dopo anni – il giudice stabilisce che ha agito con imprudenza o in malafede. Dovrebbero essere previste sanzioni per chi cita in giudizio un giornalista con richieste di danni che il giudice ritiene immotivate, infondate, basate su presupposti falsi. Non basta che il giudice condanni al pagamento delle spese di giudizio chi abusa del suo buon diritto. Occorre rendere sistematicamente applicabile l’articolo 96 del Codice di Procedura Civile che prevede un equo risarcimento a favore di chi è stato citato in giudizio senza ragione. In questo articolo è stato recentemente inserito un comma che apre questa prospettiva, ma è ancora di difficile applicazione.

Bisogna aggiungere la copertura legale per i giornalisti fra gli impegni che l’editore assume formalmente quando chiede i contributi pubblici e fra le clausole del contratto collettivo di lavoro. In attesa che la riforma sia introdotta formalmente, editori, sindacati, organizzazioni sociali devono trovare subito il modo di fornire l’assistenza legale e la copertura delle spese di giudizio ai giornalisti che vengono colpiti da querele pretestuose o da immotivate citazioni per danni. Se si vuole difendere la libera informazione bisogna trovare gli strumenti, le modalità e le risorse necessarie per fornire questa assistenza legale in modo più ampio ed esteso di quanto avviene adesso.

Un’altra materia da regolamentare, riformando la legge sulla diffamazione, riguarda il diritto di rettifica e i risarcimenti in denaro. Oggi in Italia chiunque si sente danneggiato da una notizia può citare in giudizio un giornalista per diffamazione o per danni senza aver neppure chiesto la pubblicazione di una rettifica o di una soddisfacente precisazione. Oggi un cittadino che si ritiene danneggiato da un articolo può citare in giudizio un giornale o un giornalista chiedendo un risarcimento dei danni materiali e immateriali che ritiene di aver subito fissandone l’importo a proprio piacimento. Senza che il giudice faccia alcuna valutazione sulla fondatezza e sull’importo della richiesta, essa produce un processo civile che può durare da tre a dieci anni. Questo esercizio indiscriminato del diritto è diventata la fonte principale di numerosi abusi compiuti per mettere a tacere i giornalisti scomodi. A questi abusi fanno ricorso soprattutto uomini politici, pubblici amministratori, facoltosi imprenditori che- grazie all’attuale normativacon la semplice presentazione della richiesta di danni possono condizionare pesantemente per molti anni la vita di un giornale e di un giornalista. Il giornale citato in giudizio ha l’obbligo di iscrivere subito a bilancio come passività un decimo della somma richiesta. Le richieste esose e la lungaggine del processo mettono in ginocchio i giornali più deboli. I giornalisti citati in giudizio pretestuosamente devono sostenere per molti anni spese legali consistenti, spesso al di sopra delle loro possibilità. Solo ad alcuni di loro, come già accennato, l’editore garantisce la copertura delle spese legali. I tentativi di coprire queste spese stipulando una assicurazione di responsabilità civile saranno vani finché non saranno fissati dei limiti all’importo dei danni causabili da un giornale e da un giornalista e finché non saranno definiti criteri oggettivi per calcolarli di volta in volta. È evidente l’uso strumentare che si può fare di questi processi per zittire i giornalisti scomodi. L’accesso al procedimento giudiziario dovrebbe essere subordinato alla mancata pubblicazione della rettifica e ad una valutazione preliminare della fondatezza della richiesta. Ogni richiesta giudiziaria strumentale e pretestuosa dovrebbe essere preclusa di fronte alla pubblicazione di una immediata rettifica alla notizia contestata.

Un altro tallone d’Achille del giornalismo italiano è la controversa normativa sul Segreto Professionale disciplinato dall’art. 200 del Codice di Procedura Penale, il quale, in talune circostanze, riconosce al giudice la facoltà di imporre al giornalista di rivelare le proprie fonti per evitare l’accusa di favoreggiamento o di altri più gravi reati. È necessario inoltre estendere il segreto professionale ai giornalisti pubblicisti, che attualmente ne sono esclusi, inserendo questa modifica nel progetto di riforma dell’Ordine dei Giornalisti e collegandolo al percorso di accesso alla professione.

In Italia non c’è ancora piena consapevolezza del diritto universale dei cittadini di essere informati senza omissioni e senza indebite interferenze perciò la mobilitazione civica contro le frequenti e molteplici violazioni di questo diritto è bassa, molto bassa. Il diritto di essere informati è pressoché sconosciuto, e perciò è rarissimo che sia invocato ed esercitato. Perciò si tende sempre a considerare le minacce ai giornalisti come una questione che riguarda solo i giornalisti. Numerose intimidazioni contro i giornalisti non sono identificabili come reati specifici. Ci sono atti intimidatori difficilmente dimostrabili. Ci sono abusi realizzati in modo ambiguo. Si impongono censure e bavagli con astute forzature di leggi e procedure… Tutto ciò è possibile ed è difficile da contrastare perché molti di questi abusi compiuti per oscurare l’informazione, per mettere a tacere un giornale e i suoi giornalisti contravvengono principi universalmente riconosciuti, ma non tutelati attivamente da leggi e quindi chi trasgredisce quei principi non incorre in nessuna sanzione. Non c’è una legge che dica “chi ostacola la libertà di stampa e di informazione incorre in questa sanzione”. Se ci fosse, se fossero previste sanzioni contro gli abusi del diritto, se ci fosse una aggravante per i reati penali commessi allo scopo specifico di ostacolare la pubblica informazione, molte gravi prevaricazioni nei confronti della libera attività giornalistica potrebbero essere prevenuti, frenati, perseguiti e puniti con la dovuta severità, e la stampa sarebbe più libera. Sarebbe un importante deterrente. È necessario che il legislatore colmi il vuoto normativo che consente una così estesa violazione di diritti umani fondamentali.

È necessario rafforzarla. Perciò sarebbe opportuno colmare alcuni vuoti riconoscendo per legge che:

– i giornalisti svolgono una funzione di pubblico interesse tutelata dalla legge;

– l’informazione giornalistica è un bene pubblico;

– i cittadini hanno il diritto di essere informati e i giornali di informare in base ai principi stabiliti nei trattati internazionali ratificati dall’Italia;

– chi ostacola la libertà di informazione può incorrere in sanzioni specifiche;

– chi commette reati o illeciti allo scopo di ostacolare la libera informazione ne risponde in forma aggravata.

A favore di chi subisce intimidazioni e minacce nel mondo dell’informazione devono essere più ampie e, soprattutto, codificate, coinvolgendo in una riflessione tutte le parti interessate. Lo spontaneismo attuale produce figli e figliastri. Consente personalismi, distrazioni e comportamenti opportunistici che lasciano il problema sulle spalle del minacciato. In particolare si propone:

– uno sportello nazionale composto da esperti e rappresentanti di categoria attraverso il quale sottoporre tempestivamente gli episodi di intimidazione alle istituzioni dei giornalisti e degli editori;

– la prosecuzione organica e continuativa dell’attività del Comitato di lavoro su mafia e informazione istituito dalla Commissione Parlamentare Antimafia, che nel 2012 e nel 2014 ha convocato in audizione decine di giornalisti colpiti da intimidazioni;

– dare impulso e sostegno alla creazione di un portale pubblico attraverso il quale fare conoscere gli articoli e le inchieste dei giornalisti minacciati, quale dispositivo deterrente di sicura efficacia. La diffusione di tali informazioni renderebbe controproducenti le minacce poiché amplierebbe la visibilità delle informazioni che si cerca di oscurare con la violenza e gli abusi;

– l’inserimento di giornalisti di comprovata esperienza in materia fra i consulenti del Comitato di lavoro della Commissione;

– la definizione di un codice di comportamento concordato fra i direttori, gli editori e l’intero sistema dell’informazione al quale fare riferimento ogni volta che un giornalista viene minacciato e si trova in una situazione di probabile pericolo;

– l’integrazione delle misure di protezione delle forze di polizia, per quanto necessario, da parte della struttura editoriale;

– misure per assicurare visibilità e solidarietà concreta ai minacciati fino alla soluzione del caso che li riguarda;

– iniziative per stimolare la perseguibilità degli autori delle minacce e giungere alla loro condanna. Su questa materia il governo italiano ha accolto senza riserve la raccomandazione n.54 del Consiglio dei Diritti Umani di Ginevra, relativa alla protezione di giornalisti oggetto di minacce da parte della criminalità organizzata, sostenendo che essa è stata “già attuata o in corso di attuazione”. Sul punto specifico si riconosce che in Italia l’apparato giudiziario e di polizia incaricato della protezione dei giornalisti minacciati è attivo ed efficiente, prende in attenta considerazione le denunce e ha dimostrato la capacità di scoprire autonomamente gravi minacce attraverso indagini e intercettazioni e di prevenire attentati. Tuttavia molte intimidazioni rimangono impunite;

– di richiamare l’applicazione della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che in materia di diffamazione accoglie un numero elevato di ricorsi contro sentenze di condanna emesse dalla magistratura italiana. In numerosi casi i giudici interpretano le norme in senso restrittivo rispetto alle prerogative dei giornalisti e dei blogger;

– di studiare di conciliazione extra giudiziali preventive per le querele, alternative al ricorso al giudice, con procedure gratuite o poco costose concordate fra le parti sull’esempio dei Press Council sperimentati con successo in vari paesi;

– di valutare l’opportunità di istituire corpi specializzati incaricati di perseguire i reati commessi per intimidire i giornalisti e ostacolare la libertà di informazione;

– di chiedere che le istituzioni ufficiali pubblichino dati statistici sul numero dei giornalisti sotto scorta, dei giornalisti che denunciano abusi e minacce, sull’esito delle indagini relative, sulle querele per diffamazione e sulle cause per danni intentate a cronisti, sulla durata e sull’esito dei processi penali e delle cause civili;

– di sollecitare misure più trasparenti per individuare chi effettivamente detiene e controlla la proprietà dei giornali;

– di sviluppare un’indagine specifica sull’informazione a Roma e nel Lazio dove la pressione intimidatoria è alta (è doppia rispetto a Milano- Lombardia) e dove negli ultimi due anni si sono verificati fatti che hanno destato particolare allarme .

Il lavoro dei cronisti italiani dovrebbe essere reso più sicuro anche curando le modalità pratiche attraverso le quali essi svolgono la loro attività. In particolare si deve prestare attenzione alla condizione di isolamento di molti giornalisti che trattano le informazioni più delicate, specialmente di quelli che operano in periferia, nei piccoli centri, in redazioni formate da poche unità e, a volte, da una sola persona, a tutti i giornalisti precari, i free lance pagati pochi euro, privi di contratto e di tutela legale dell’editore.

La protezione deve essere:

legislativa: In particolare, è necessario depenalizzare la diffamazione: prevedere indagini preliminari obbligatorie per le querele per diffamazione e udienze filtro per le richieste di risarcimento presentate allo stesso titolo; rendere le sanzioni economiche proporzionate alle capacità economiche del condannato; obbligare chi chiede il risarcimento di un danno subito di dimostrarne la consistenza; sanzionare efficacemente chi presenta querele pretestuose e richieste di danni immotivate o temerarie; – organizzativa: occorre promuovere il giornalismo di squadra. Per chi lavora fuori delle redazioni occorre rendere visibile in altre forme il fatto che tratta notizie delicate d’intesa e con la condivisione dell’intera redazione. Si può ottenere questo risultato con l’aggiunta di firme di altri redattori, con editoriali, azioni pubbliche dei comitati di redazione, eccetera;

economica: per sostenere – in forma assicurativa – le spese inevitabili di fronte a situazioni di pericolo e ad abusi, per evitare che un errore fatto in buona fede o l’accanimento di un querelante pretestuoso possano privare il giornalista del frutto di anni di lavoro. Bisogna consentire ai giornalisti di dotarsi di una assicurazione professionale come è consentito ad altre categorie, modificando la legge (in particolare, depenalizzando la diffamazione). Inoltre, bisogna impegnarsi affinché i giornalisti non siano sottopagati e non siano privati delle garanzie contrattuali previste proprio per permettere loro di esercitare l’autonomia professionale e di resistere a pressioni e ricatti;

legale: attualmente la maggior parte degli editori non fornisce assistenza legale ai giornalisti. Per moltissimi giornalisti ciò significa che una querela, anche se infondata e pretestuosa, riduce di migliaia di euro il loro reddito annuo; – procedurale: l’effetto intimidatorio delle querele pretestuose per diffamazione e delle cause per danni infondate si esplica soprattutto a causa delle lungaggini processuali. È necessario che entro termini prefissati le denunce passino al vaglio preventivo di un’istruttoria preliminare o di un’udienza filtro.