Giornalisti. Come ricordare i morti e proteggere i vivi

FIRENZE,  3 MAGGIO 2015 – In ricordo di chi ha perso la vita per cercare la verità dobbiamo rendere più sicure le condizioni di lavoro dei cronisti. Le proposte di Ossigeno

di Alberto Spampinato – L’informazione e la professione giornalistica hanno indubbiamente valore e interesse pubblico. Ma la legge italiana non lo riconosce esplicitamente come sarebbe necessario. Anche per questo motivo l’Italia non riflette abbastanza sui rischi che i giornalisti devono affrontare. Anche per questo motivo l’Italia non affronta i problemi più drammatici connessi allo svolgimento di questa professione. Anche per questo motivo in Italia pochi si rendono conto che chi minaccia un giornalista colpisce un interesse pubblico. La Giornata della memoria dei giornalisti uccisi offre l’occasione per riflettere su queste cose.

Questa manifestazione, indetta dalle Nazioni Unite e celebrata ogni anno in Italia per merito dell’UNCI, ha innanzitutto lo scopo di ravvivare il ricordo dei tanti giornalisti che hanno perso la vita perché hanno svolto con coraggio, con onore e nell’interesse pubblico il compito di informare l’opinione pubblica su fatti che i cittadini hanno il diritto di conoscere, che devono conoscere per partecipare consapevolmente alla vita pubblica.

Queste celebrazioni non sono semplici commemorazioni. Servono a fare il punto. A verificare quanti e quali, fra i problemi costati la vita a tanti coraggiosi giornalisti, attendonouna soluzione. In altre parole, queste cerimonie ci danno l’occasione di discutere per trovare quale sia il modo migliore di proteggere efficacemente i cronisti dai rischi prevedibili che la loro professione comporta.

Nel 2012 e poi nel 2014 Ossigeno ha fatto una serie di proposte alla Commissione Parlamentare Antimafia e ora, in occasione della celebrazione a Firenze della Giornata della Memoria dei giornalisti uccisi Ossigeno propone che su di esse si sviluppi un ampio confronto pubblico sulle scelte da fare, sulle misure di protezione più opportune da adottare. Ossigeno propone che i risultati di questo confronto siano verificati nel 2016, quando si celebrerà la nona edizione della Giornata della Memoria, affinché la dedica della manifestazione ai giornalisti minacciati non sia una pura formalità.

220px-Beppe_Alfano Fu freddato con tre colpi di pistola da un killer solitario mentre, al volante della propria auto, rientrava a casa. Aveva 42 anni, era insegnante di educazione tecnica e per passione faceva, senza alcuna tutela professionale, il corrispondente del quotidiano catanese La Sicilia. Beppe Alfano, dunque, non era un giornalista iscritto all’Ordine (lo fu dopo la sua morte, come avvenuto per Peppino Impastato e Mauro Rostagno), ma aveva la passione e l’intuito del cronista di razza. Aveva cominciato un’indagine su un traffico internazionale di armi che passava nell’area di Messina; aveva forse contribuito anche alla cattura del boss Nitto Santapaola nel ‘93 e aveva scritto di una massoneria deviata che speculava sul traffico di arance avvalendosi delle sovvenzioni europee. Insomma, con i suoi articoli di denuncia Beppe Alfano metteva a nudo gli intrecci tra criminalità organizzata, politica inquinata e comitati d’affari.

Ilaria-Alpi_Miran-Hrovatin“A me piace andare, vedere e riferire, e non farmi raccontare da altri ciò che è successo. E questo sempre, in ogni circostanza” disse Ilaria Alpi – 39 anni, inviata del Tg3 – ad una collega qualche mese prima di morire in un agguato teso a lei e al suo cameraman Miran Hrovatin in una strada di Mogadiscio dove si trovavano per raccontare sia la guerra tra le due fazioni che insanguinava la Somalia, sia l’operazione Restore Hope per ristabilire l’ordine in quel Paese. Si trattò di una vera e propria esecuzione: i killer somali spararono a bruciapelo. Ancora non si conosce la verità sul duplice omicidio. Nata a Roma, laureata in Lettere e lingue straniere, ottima conoscitrice della lingua araba, dopo varie collaborazioni (Paese sera e l’Unità) Ilaria entrò in Rai nel 1989 dove divenne inviata per l’estero. Miran Hrovatin, 45 anni, nato a Trieste, appartenente alla comunità slovena in Italia, era un fotografo e cineoperatore che lavorava per l’agenzia triestina Videoest. Per lui, come per Ilaria, il giornalismo era una missione. A Ilaria e Miran il 15-11-2007 è stata conferita la medaglia d’oro al merito civile.

de-palo-toniIl 2 settembre del 1980 le agenzie stampa diffondono la notizia della scomparsa di due giornalisti italiani in Libano: si tratta di Italo Toni di Sassoferrato (Ancona) e di Graziella De Palo di Roma. Toni di anni ne ha cinquanta, De Palo, sua compagna di vita e di lavoro, appena 24. Profondo conoscitore dei problemi del Medio Oriente, Toni ha alle spalle numerose collaborazioni con testate quali La conquista, Il Ponte, L’Astrolabio, Aut e Mensile: è lui a firmare lo scoop con cui Paris Match nel 1968 racconta al mondo l’esistenza dei primi campi di addestramento della guerriglia palestinese. Un coraggio e una determinazione che troviamo in nuce anche nei reportage di De Palo che sulle pagine di Paese Sera e, ancora, de L’Astrolabio, testata diretta e fondata da Ferruccio Parri, denuncia i traffici d’armi internazionali che violano l’embargo Onu contro stati dell’area afroasiatica dominati da politiche interne repressive spesso affidate a guerriglieri e mercenari.
A Beirut Toni e De Palo ci sono arrivati da dieci giorni con l’intenzione di documentare le condizioni di vita dei profughi palestinesi e la situazione politico militare di quella che fino a qualche anno prima era considerata la “Svizzera del Medio Oriente”. Escono dall’albergo e salgono su una jeep del Fronte democratico popolare per la liberazione della Palestina diretti nei pressi del castello di Beaufort, dove insiste una delle linee di fuoco controllata dagli israeliani e dai loro alleati. Sono consapevoli dei rischi. Per questo comunicano i loro spostamenti all’ambasciata italiana. Forse un presentimento: non faranno più ritorno. Durante il tragitto vengono rapiti e inghiottiti nel nulla. Chi è stato e soprattutto perché? Interrogativi che rimangono senza risposta.

luchetta_ota_dangeloUna troupe della Rai di Trieste – il giornalista Marco Luchetta, l’operatore Alessandro Ota e il tecnico di ripresa Dario D’Angelo – sono a Mostar, in Bosnia-Erzegovina, per girare uno speciale per il Tg1 sui “bambini senza nome”, cioè quelli nati da stupri etnici o con genitori dispersi in guerra. Il conflitto balca- nico è al culmine. A Mostar la parte ovest è croata, la parte est è un ghetto musulmano sottoposto a continui bombardamenti. Luchetta, Ota e D’Angelo sono riusciti a entrarci e hanno scoperto un rifugio dove da mesi dormono decine di persone, tra cui molti bambini. Il luogo è buio, le batterie della torcia elettrica di D’Angelo si stanno esaurendo. I tre chiedono a uno dei bimbi, di nome Zlatko, di uscire. Mentre sono in strada, una granata proveniente da Mostar ovest scoppia un metro dietro la troupe. Luchetta, Ota e D’Angelo muoiono sul colpo. Zlatko, protetto dai corpi dei tre inviati, si salva. Attualmente vive in Svezia con i genitori.

Cutuli4Il suo ultimo scoop – il ritrovamento di un deposito di gas nervino in una base Taliban abbandonata – era apparso sulla prima pagina del Corriere della Sera proprio il giorno della sua morte, avvenuta sulla strada che collega Jalabad a Kabul. L’auto sulla quale Maria Grazia Cutuli viaggiava con tre colleghi -un australiano, uno spagnolo e un afgano- è stata bloccata da un gruppo di uomini armati che prima hanno fatto scendere i giornalisti, poi li hanno uccisi a raffiche di kalashnikov. I quattro corpi sono stati recuperati il giorno successivo. Catanese, 39 anni, Maria Grazia aveva cominciato la sua carriera nel 1986 nel quotidiano La Sicilia, poi era passata a Sud, un settimanale regionale che si occupava di tv, collegato all’emittente regionale televisiva Telecolor International con cui la Cutuli aveva collaborato. Quindi il trasferimento a Milano, per la scuola di giornalismo, dove aveva lavorato per Centocose e per Epoca prima di approdare, nel luglio ‘99, al Corriere della Sera per il quale faceva l’inviata senza averne la qualifica, che le venne attribuita dopo la morte.

CirielloRaffaele Ciriello, fotoreporter di guerra con laurea in medicina, emigrato, dalla natia Lucania, al capoluogo lombardo per coltivare la passione per la fotografia che interpreta come forma di linguaggio privilegiato in quanto universalmente comprensibile nella sua immediatezza e trasparenza. Anche lui cadrà colpito a morte da un soldato, neppure quattro mesi dopo Maria Grazia, il 13 marzo 2002,
a Ramallah in Palestina: Raffaele di anni ne ha 42.
Comincia a lavorare come fotografo attorno al 1990 per la rivista Motociclismo. Il suo amore per l’Africa nasce e cresce sullo sfondo della Parigi-Dakar che racconta agli appassionati delle due ruote con l’occhio curioso e severo del suo obiettivo.
La carriera da freelance sul fronte inizia nel 1993 in Somalia e si arricchisce di collaborazioni prestigiose fra cui quella col Corriere della Sera. Le sue “cartoline dall’inferno” – cards from hell è l’indirizzo del sito che ha creato e che aggiorna quasi in tempo reale da ogni dove – fanno il giro del mondo. Ed è l’inferno dell’Intifada, nove anni dopo, che lo inghiottirà. A ucciderlo saranno cinque proiettili 7.62 Nato prodotti per le mitragliatrici coassiali montate sui carri armati Merkava dell’esercito israeliano. A centrarlo in pieno infatti è un militare di vedetta su uno dei tank che Ciriello sta riprendendo con una telecamera palmare poco più grande di un pacchetto di sigarette. L’inchiesta interna dell’Idf (Israely defence forces) liquiderà l’assassinio di Ciriello come uno sfortunato e tragico incidente. Morto per un errore. Paradossale, inammissibile. Ciriello sarebbe stato scambiato per un palestinese armato pronto a far fuoco con un Rpg, ossia un lanciagranate che si punta in spalla. Una dotazione che potrebbe, semmai, corrispondere – di qui l’eventuale “confusione” che resta sempre e comunque ingiustificabile – con una cinepresa utilizzata da cameraman professionisti ma non certo con quella amatoriale impugnata e manovrata con una sola mano da Ciriello. Questa la “verità” di comodo contenuta nel rapporto delle autorità di Tel Aviv e a cui si è dovuta piegare anche la magistratura italiana che aveva aperto un fascicolo penale per conoscere i nomi dei componenti dell’equipaggio del carrarmato. Dopo il rigetto della richiesta di rogatoria internazionale da parte del governo israeliano, nonostante il trattato di collaborazione giudiziaria stipulato con l’Italia, inevitabile l’archiviazione del procedimento nel settembre del 2003.
Per il “milite ignoto” che ha fatto fuoco nemmeno una sanzione disciplinare, nemmeno una sanzione amministrativa.

Vittorio Arrigoni (Besana in Brianza, 4 febbraio 1975 – Gaza, 15 aprile 2011) è stato un reporter, scrittore e attivista italiano. Sostenitore della soluzione binazionale (uno stato laico e unico per i due popoli) come strumento di risoluzione del conflitto israeliano-palestinese, nonché pacifista, ha contrastato le politiche sioniste e di pulizia etnica nei confronti della popolazione araba; più volte minacciato, arrestato e pestato dalle forze di sicurezza di Israele, che lo ha inserito nella lista nera delle persone sgradite, ha trovato la morte per mano di un sedicente gruppo afferente all’area jihadista salafita.

almerigo_grilzQuando Almerigo Grilz decide di abbracciare definitivamente e in via esclusiva la professione giornalistica si dimette dalla carica di consigliere comunale della sua città natale, Trieste, senza tuttavia abbandonare quella militanza politica, sempre a destra, che lo ha visto prima dirigente e capo del Fronte della Gioventù triestino, fino a diventare nel 1977 sempre di FdG vicesegretario nazionale e poi esponente di spicco fra le fila del Movimento Sociale Destra Nazionale.

Dalla fine degli anni Settanta in poi Grizl è, come ama definirsi, inviato di guerra indipendente, freelance, nei territori più “caldi”: dall’Afghanistan occupato dalla Russia, al Libano contrapposto a Israele, all’Etiopia sconvolta dalle guerriglie, alla Cambogia, alla Thailandia, alle Filippine, all’Angola. I suoi resoconti vengono rilanciati da Cbs, France 3, Nbc, Panorama e Tg1. Nel 1983 con Gian Micalessin e Fausto Biloslavo fonda la Albatros Press Agency, un’agenzia giornalistica che produrrà servizi scritti, fotografati e filmati in aree del mondo interessate da fenomeni bellici o rivoluzionari. Quattro anni dopo, il 19 maggio 1987, Grizl verrà ammazzato da un “proiettile vagante” a Caia in Mozambico mentre con la cinepresa sta filmando una battaglia fra i miliziani del fronte Renamo e quelli fedeli al governo in carica. Dal 2001 il capoluogo giuliano ha una strada intitolata ad Almerigo Grizl, giornalista, una piccola via sul lungomare di Barcola.

Andrea-Rocchelli-150x150Andrea Rocchelli (detto Andy) (Pavia, 27 settembre 1983 – Slavianks, Ucraina, 24 maggio 2014), fotoreporter, faceva parte del collettivo Cesura, di cui era uno dei fondatori. Originario di Pavia, dopo un master al Politecnico di Milano, aveva lavorato per la nota agenzia Grazia Neri e poi viaggiato molto fra Africa ed Europa dell’Est, collaborando con testate italiane ed internazionali come Newsweek, Le Monde, The Wall Street Journal, Novaya Gazeta. È morto a 30 anni, ucciso insieme al suo interprete, Andrey Mironov (giornalista e attivista politico), a Slavianks, a nord di Donetsk, in Ucraina, colpito da una scarica di mortaio durante gli scontri fra esercito nazionale e indipendentisti filorussi.

antonio-russoAntonio Russo, era un cronista freelance con solide esperienze fatte in Algeria, Burundi, Rwanda, Colombia, Ucraina. Dal ‘95 lavorava per Radio Radicale. E per quell’emittente andò in Kosovo dove rimase, unico giornalista occidentale in quella regione durante i bombardamenti della Nato, fino al 31 marzo 1999 per documentare la pulizia etnica contro gli albanesi kosovari. Antonio Russo è morto la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2000 in Georgia, dove si trovava come inviato di Radio Radicale per testimoniare la guerra in Cecenia. Aveva 40 anni. Il suo corpo senza vita fu scoperto ai bordi di una strada di campagna a 25 chilometri da Tibilisi, torturato con tecniche riconducibili a reparti militari specializzati. Il materiale che aveva con sè – videocassette, articoli, appunti – non venne ritrovato, anche il suo alloggio a Tibilisi fu trovato svaligiato (pur senza toccare gli oggetti di valore) e l’auto rubata. Le circostanze della morte non sono mai state chiarite. Ai funerali svoltisi a Francavilla a Mare, sua città natale, la madre ha detto: “La sola cosa che mi consola è che è stata una morte coerente con la sua vita”

baldoniSenza nome e senza volto pure gli aguzzini di Enzo Baldoni rapito il 20 agosto 2004 nei dintorni di Najaf, in Iraq, mentre partecipa a una spedizione umanitaria condotta dalla Croce Rossa italiana.

Il giornalista freelance umbro di Città di Castello, naturalizzato milanese, ha 56 anni e forse presagisce che quello potrebbe essere il suo ultimo viaggio, tanto che sul suo blog iracheno Bloghdad, scrive: “Guardando il cielo stellato ho pensato che magari morirò anch’io in Mesopotamia, e che non me ne importa un baffo, tutto fa parte di un gigantesco minestrone cosmico, e tanto vale affidarsi al vento, a questa brezza fresca da occidente e al tepore della Terra che mi riscalda il culo. L’indispensabile culo che, finora, mi ha sempre accompagnato”. Un talento eclettico quello di Baldoni che si sviluppa inizialmente nell’ambito pubblicitario con l’attività di copywriter all’interno de Le Balene colpiscono ancora, la società da lui stesso fondata. Tra i suoi spot più d’effetto quello della rondine dell’acqua minerale San Benedetto. Poi c’è l’agriturismo di famiglia a Preci, in Valnerina, l’insegnamento all’Accademia di Comunicazione di Milano, la mania per i fumetti di cui è interprete entusiasta: fra i primi in Italia a sfruttare la potenzialità e la versatilità del blog, il suo nickname nel mondo del web è Zonker, dall’omonimo personaggio della striscia fumettistica Doonesbury di Trudeau di cui cura la traduzione italiana. E poi c’è l’attività di volontario con la Croce Rossa.
L’amore per il reportage nasce nel 1996 in Chiapas sulla scorta dell’incontro con il subcomandante Marcos. “Non c’è niente da fare: quando uno è ficcanaso, è ficcanaso. È irruentemente curioso, gli interessano i lebbrosi, quelli che vivono nelle fogne, i guerriglieri. E poi non gli basta fare il pubblicitario, deve occuparsi anche di critica, di fumetti, di traduzioni, di temi civili e perfino di cose un sacco zen” è il ritratto che Baldoni dà di se stesso. I suoi resoconti appaiono sulle pagine di Specchio de La Stampa e Venerdì di Repubblica. La necessità di capire lo porta nelle fogne di Bucarest, lo spinge a testimoniare lo sterminio dei Karenm in Birmania, i massacri di Timor Est, le sofferenze nel lebbrosario di Kalaupapa, lo conduce a mangiare riso e ranocchi fra i ribelli Aye Aye Khing e a perdersi nella giungla thailandese alla ricerca dei Fratelli Htoo, i gemellini di 12 anni che guidano l’Esercito di Dio vantando poteri miracolosi. In Iraq Baldoni entra con un accredito di Diario: per lui è la prima volta. Il suo lavoro si interrompe dopo un paio di settimane quando viene sequestrato da una sedicente organizzazione fondamentalista musulmana – le Armate islamiche – che si ritiene legata ad Al-Qaeda. È il 20 agosto 2004: l’ultimatum dato all’Italia è di ritirare entro 48 ore tutte le truppe dal territorio iracheno. Dopo cinque giorni l’ostaggio viene ucciso. La sua esecuzione viene filmata e il video inviato alla tv satellitare del Qatar Al Jazeera che si rifiuta di metterlo in onda per rispetto alla famiglia: le immagini sugli ultimi istanti di vita di Baldoni vengono definite agghiaccianti. A tutt’oggi non si è saputo dove sia stato sepolto il cadavere. Restano molti interrogativi, soprattutto sul perché le trattative per la liberazione del prigioniero si siano a un certo punto inceppate. “Nostro padre è un uomo di pace” hanno detto i figli Guido e Gabriella nell’appello in cui chiedono clemenza ai rapitori. Le loro facce pulite e serene colpiscono nel profondo il cantautore Samuele Bersani che nel maggio del 2006 scrive una canzone dedicata a Baldoni: contenuta nel cd L’Aldiquà, si intitola Occhiali rotti e nell’aprile 2007 vince il premio “Amnesty Italia” indetto da Amnesty International. “Per capirmi è necessaria la curiosità di Ulisse di viaggiare in solitaria vedendo il mondo per esistere”: è uno dei passaggi più significativi di un testo che interpreta l’essenza di tutti i cronisti. Di guerra e di pace.

gruenerGabriel Gruener, 35 anni, giornalista italiano di lingua tedesca originario di Malles (Bolzano), si trovava a Dulje, cittadina del Kosovo, insieme con il suo collega tedesco Volker Kraemer, 56 anni fotografo. Entrambi lavoravano per il settimanale tedesco Stern. Gabriel Gruener era a Stern dal 1991 e ben presto si era imposto come inviato speciale di guerra. Esperto dei Balcani, Gabriel aveva coperto Slovenia, Croazia, Bosnia, Serbia, ma anche altri punti caldi, anzi bollenti del mondo: Somalia, Afghanistan, Algeria, Sudan. Giovane, ma di grande coraggio e professionalità dunque. Quel giorno, Gruener e il collega si trovavano a Dulje dove sono stati raggiunti da colpi di arma da fuoco esplosi da un cecchino, uno dei tanti che infestavano quella martoriata regione. Kraemer è morto all’istante, Gruener è invece deceduto in un ospedale della Macedonia dove era stato trasportato anche se le sue condizioni erano apparse disperate fin dal primo momento.

pulettiLa vita di Guido Puletti è contraddistinta dall’impegno politico, nel suo caso a sinistra, che lo vedrà imprigionato e torturato nel 1977 nell’Argentina del dopo golpe e nel 1990 iscritto in Italia a Democrazia Proletaria e quindi al Partito della Rifondazione comunista con il quale si candida e viene eletto nel consiglio comunale di Brescia, sua città d’adozione. Puletti nasce a Buenos Aires nel 1953: il padre è originario della provincia di Perugia, la madre ha ascendenti spagnoli e inglesi. Da studente delle superiori si avvicina ai gruppi peronisti per poi negli anni Settanta, da impiegato statale, essere un attivista sindacale, militando dal ’73 al 76 nell’organizzazione trotzkista Politica Obrera. Il 20 settembre 1977 viene sequestrato da un commando militare, chiuso in un campo di concentramento e torturato. Liberato grazie all’intervento dell’ambasciata italiana si rifugia in Italia, trasferendosi a Brescia nel dicembre dello stesso anno con tutta la famiglia.

Nel 1981 comincia a scrivere per la pagina culturale del quotidiano Bresciaoggi. Ma i temi a lui cari sono la politica e l’economia internazionale interpretati alla luce della contrapposizione fra un Nord sempre più ricco e un Sud sempre più povero. Dalla metà degli anni Ottanta, in qualità di autorevole specialista, avvierà su tali questioni numerose collaborazioni con agenzie di stampa, riviste, periodici: Ansa, Mondo Economico, Il Mondo, Epoca, Panorama, Geodes, Rinascita. Nel 1991 scoppia il conflitto nella ex Jugoslavia: in luglio Puletti, attivo anche nei movimenti di opposizione alla Guerra del Golfo, partecipa alla marcia di Sarajevo organizzata dai Beati Costruttori di Pace di don Albino Bizzotto. Una volta rientrato scriverà: “Il conflitto ha degradato e imbarbarito i rapporti sociali, politici culturali… È come se una divinità impazzita avesse trasportato con un’infernale macchina del tempo l’intera zona nel Medio Evo più buio”. Gli sconvolgimenti che stanno mettendo a ferro e fuoco i territori martoriati al di là dell’Adriatico diventano centrali non solo nel suo lavoro di giornalista, ma anche nella sua analisi politica e nel suo fervore umanitario. Nei primi mesi del 1993, Puletti intensifica i viaggi in Bosnia. Quello finalizzato a un progetto di solidarietà destinato alle città di Vitez e di Zvidovici gli sarà fatale: il 29 maggio il suo convoglio viene assalito vicino a Gornji Vakuf dai “Berretti Verdi” del comandante “Paraga”, al secolo Hanefija Prijc. Puletti viene fatto scendere insieme ad altri quattro volontari e scortato a una vicina radura per essere fucilato. Con lui muoiono Sergio Lana, studente di 21 anni di Gussago, e Fabio Moreni imprenditore cremonese di 40 anni. Nel settembre del 1998 il ministero di Grazia e Giustizia italiano riconosce l’eccidio come “delitto politico”. Il 28 giugno 2001 Paraga viene condannato dal tribunale di Travnik a 15 anni di reclusione, ridotti a 13 nell’aprile dell’anno seguente dalla Corte di Cassazione di Sarajevo. Al riguardo l’associazione “Guido Puletti” rileva che manca ancora l’identificazione degli esecutori materiali – i due soldati bosniaci che hanno premuto il grilletto – e dei mandanti della strage.

Carlo_CasalegnoTorinese, 61 anni, vice direttore de La Stampa dal 1968, viene colpito il 16 novembre con quattro colpi di pistola al volto da due killer delle Brigate Rosse nell’androne del palazzo in cui abitava. Muore dopo tredici giorni di agonia. È la prima volta che i terroristi della stella a cinque punte sparano a un giornalista con la chiara intenzione di uccidere. L’attentato – organizzato e voluto dalle BR in accordo con tutte le formazioni terroristiche europee per vendicare la morte dei componenti della banda Baader -Meinhof nel carcere tedesco di Stammhein -era nell’aria. Casalegno, dopo una serie di minacce e una bomba al giornale, da alcuni giorni era protetto da una scorta. Lo ha tradito un improvviso mal di denti: è andato dal dentista da solo, al ritorno a casa ha trovato i suoi assassini. Da molto tempo Carlo Casalegno era pedinato da Patrizio Peci, Vincenzo Acella, Piero Panciarelli e Raffaele Fiore. A sparare è stato quest’ultimo, con una Nagant 7,62 usata per uccidere anche Fulvio Croce, presidente dell’Ordine degli avvocati di Torino. “Abbiamo giustiziato un servo dello Stato”’, rivendicarono i terroristi richiamando la sua rubrica “Nostro Stato” sul giornale. A Casalegno il 29-7-1977 è stata conferita la medaglia d’oro al valore civile.

cosimo-cristinaAveva 24 anni, era corrispondente del quotidiano l’Ora da Termini Imerese, aveva scritto articoli e inchieste sugli intrecci tra mafia e politica nella zona delle Madonie. Il 3 maggio erano circa le 11 del mattino quando Cosimo Cristina uscì da casa ben vestito, con il solito cravattino, rasato di fresco e profumato. La sera, non vedendolo rincasare, i genitori e le tre sorelle si impensierirono. Cosimo non tornò in famiglia neanche dopo due giorni.

Vane le ricerche dei parenti, degli amici, dei carabinieri. Furono due giorni di cupa, profonda, assoluta disperazione. Il cadavere del giovane cronista fu trovato alle 15,35 del 5 maggio lungo la strada ferrata della linea Palermo-Messina, tra le stazioni di Termini Imerese e Trabia. Il padre, impiegato delle Ferrovie, apprese dalla radio la notizia della presenza di un corpo senza vita sui binari del treno e accorse sul luogo del ritrovamento.
Per anni si seguì la pista del suicidio. Negli anni ’90 il caso venne riaperto, ma non trovò una spiegazione giudiziaria diversa per la sua morte.

Giancarlo-SianiGiovanissimo, Giancarlo Siani cominciò a collaborare con alcuni periodici napoletani interessandosi ai problemi dell’emarginazione, principale serbatoio di manovalanza della camorra. Poi iniziò a lavorare come corrispondente da Torre Annunziata per il quotidiano Il Mattino: dipendeva dalla redazione distaccata di Castellammare di Stabia. Siani svolse importanti inchieste sui boss locali, un ottimo lavoro che lo portò a diventare corrispondente del quotidiano nell’arco di un anno e ad avere la promessa di essere assunto. In un suo articolo Giancarlo scrisse che l’arresto del boss Valentino Gionta fu possibile per una “soffiata” del clan Nuvoletta ai carabinieri. Ciò provocò le ire dei fratelli Nuvoletta che, agli occhi degli altri boss partenopei, facevano la figura degli “infami”.

Il 23 settembre 1985, poco dopo avere compiuto 26 anni, Giancarlo Siani venne ucciso alle 20,50: aveva appena lasciato la redazione centrale de Il Mattino, all’epoca diretto da Pasquale Nonno.

giovanni_spampinatoCronista brillante e scrupoloso Giovanni Spampinato, corrispondente da Ragusa del quotidiano l’Ora di Palermo, aveva svolto inchieste a Ragusa, Siracusa e Catania sulle sospette attività di neofascisti locali. Il 25 febbraio 1972 a Ragusa fu assassinato il costruttore Angelo Tumino, delitto di cui Spampinato si occupò fin dall’inizio finendo sulle tracce di Roberto Campria, un collezionista d’armi figlio dell’allora presidente del tribunale cittadino. Nei mesi seguenti Campria, protestandosi vittima di assurdi sospetti, cercò di farsi scagionare dal giornalista. Ma Giovanni Spampinato continuò a scrivere di atipicità del delitto Tumino, traffici di materiale archeologico, armi e droga, presenze di mafiosi e di superlatitanti. La sera del 27 ottobre Campria attirò in periferia Spampinato, che aveva 26 anni, e lo uccise a revolverate. Subito dopo si costituì dicendo di avere agito in un impeto d’ira perché ingiustamente accusato da Spampinato in diversi articoli. L’omicida venne condannato a 14 anni di reclusione, ma ne scontò solo 8, in manicomio giudiziario.

Giuseppe-Fava-300x225Laureato in giurisprudenza, nel 1952, Pippo Fava diventò giornalista professionista e cominciò a collaborare con varie testate regionali e nazionali. Nel 1956 venne assunto a Espresso Sera. E prese a scrivere anche per il teatro e il cinema. Nel 1980 – anno in cui il film Palermo or Wolfsburg, da lui sceneggiato, vinse l’Orso d’Oro al Festival di Berlino – Pippo Fava lasciò Espresso Sera e assunse la direzione del Giornale del Sud. Nel novembre 1982 fondò il mensile I Siciliani e pubblicò inchieste in cui si denunciavano con forza le collusioni tra mafia, politica e imprenditoria. Alle 22 del 5 gennaio 1984 Pippo aveva appena lasciato la redazione del suo giornale e stava andando a prendere la nipote che recitava al teatro Stabile. Non ebbe il tempo di scendere dalla macchina che fu freddato da cinque colpi calibro 7.65 alla nuca. Al funerale, solo poche persone tra cui il presidente della regione Santi Nicita. Nel 2003 la Cassazione ha condannato all’ergastolo il boss Nitto Santapaola, mandante del delitto.

franceseOriginario di Siracusa, fu ucciso a colpi di pistola in viale Campania, sotto casa. Era il cronista di nera del Giornale di Sicilia, ruolo in cui compì un’approfondita ricostruzione delle più complesse vicende di mafia degli anni ‘70 e pubblicò per primo i nomi dei boss corleonesi che cominciavano a scalare le gerarchie di Cosa Nostra per arrivare a Palermo. Perché venne assassinato?

Perché si legge nella motivazione della sentenza della Cassazione che condannò esecutori e mandanti di quel delitto, Mario Francese possedeva “una straordinaria capacità di operare collegamenti tra i fatti di cronaca più significativi, di interpretarli con coraggiosa intelligenza, e di tracciare così una ricostruzione di eccezionale chiarezza e credibilità delle linee evolutive di Cosa Nostra”. Inoltre, scrissero ancora i supremi giudici, con l’eliminazione di quel cronista dalla “schiena dritta” si aprì “la stagione dei delitti eccellenti”.
Francese, tra l’altro, intuì e descrisse l’inizio dell’assalto dei corleonesi al vertice di Cosa Nostra. Riferì anche della frattura nella “Commissione mafiosa”.

de-mauroNato a Foggia nel 1921, vice questore di polizia a Roma nel 1943-44, dopo la seconda guerra mondiale Mauro De Mauro si trasferì a Palermo dove si dedicò al giornalismo e lavorò, rivelandosi un ottimo cronista, per diversi giornali prima di approdare definitivamente a l’Ora. Nel 1962 aveva seguito la tragica fine del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, e nel settembre del 1970 si stava nuovamente occupando del caso su incarico del regista Francesco Rosi peril suo film Il caso Mattei, che sarebbe uscito due anni dopo. Mercoledì 16 settembre 1970, alle 21, De Mauro stava per rientrare a casa in via delle Magnolie, in un quartiere residenziale di Palermo. La figlia Franca vide il padre parlare con alcuni uomini, poi risalire sulla sua Bmw e partire. La vettura verrà trovata, di

De Mauro nessuna traccia. Anni dopo, alcuni pentiti di mafia diranno che il giornalista fu ucciso per ordine di Cosa Nostra. Il caso non è ancora chiuso: si ritiene, infatti, che l’omicidio sia stato eseguito per bloccare l’inchiesta di De Mauro sulla morte di Mattei, un altro filone punta al golpe ipotizzato dal “principe nero” Junio Valerio Borhese che di De Mauro era stato comandante alla Decima Mas.

rostagnoUna vita movimentata, quella di Mauro Rostagno: a soli 19 anni si sposa e ha una figlia, poi lascia la moglie, va in Germania e in Francia, torna in Italia e a Trento si iscrive alla facoltà di sociologia dove – con Marco Boato, Renato Curcio, Mara Cagol e altri – anima il Movimento degli studenti. Nel 1969 è tra i fondatori di Lotta Continua. Dopo lo scioglimento di Lotta Continua anima il locale milanese Macondo. Chiuso quest’ultimo va in India e quando torna, nel 1981, fonda vicino a Trapani la comunità Saman per il recupero dei tossicodipendenti.

Rostagno lavora anche per l’emittente locale RadioTeleCine attraverso la quale denuncia con forza le collusioni tra mafia e politica locale. La sera del 26 settembre 1988 Mauro paga con la vita la sua passione sociale e il suo coraggio: viene assassinato in un agguato in contrada Lenzi, poco distante da Saman, all’interno della sua auto. Aveva 46 anni. La sua uccisione è rimasta impunita.

Peppino_Impastato_1977Nato da una famiglia mafiosa, ancora ragazzo Giuseppe Impastato, Peppino per parenti e amici, ruppe con il padre e avviò un’attività politico-culturale antimafiosa. Nel 1965 fondò il giornalino L’Idea Socialista e condusse le lotte dei contadini, degli edili e dei disoccupati. Nel 1976 diede vita a Radio Aut, emittente libera autofinanziata con cui denunciò i delitti e gli affari dei mafiosi di Cinisi e Terrasini; il programma più seguito era Onda Pazza, trasmissione in cui Peppino sbeffeggiava mafiosi e politici.

Nel 1978 si candidò alle elezioni comunali nella lista di Democrazia Proletaria. Fu assassinato nella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978 con una carica di tritolo messa sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Aveva 30 anni. Dapprima si parlò di atto terroristico in cui l’attentatore era rimasto ucciso, poi di suicidio.

Grazie anche all’attività del Centro Impastato venne infine individuata la matrice mafiosa del delitto. Il 5 marzo 2001 la Corte d’Assise di Palermo condannò il boss Gaetano Badalamenti all’ergastolo e il suo vice Vito Palazzolo a 30 anni di reclusione.

Walter-Tobagi-300x200La carriera giornalistica di Walter Tobagi cominciò al ginnasio come redattore della Zanzara, il celebre giornale del liceo milanese Parini. Dopo il liceo, entrò all’Avanti! di Milano, ma pochi mesi dopo passò al quotidiano cattolico Avvenire. Furono anni di pratica alla scuola di “cronista sul campo” che lo portarono prima al Corriere d’Informazione e infine al Corriere della Sera. Il suo interesse prioritario era per i temi sociali, l’informazione, la politica e il movimento sindacale. Ma il suo impegno professionale maggiore Tobagi lo dedicò alle vicende del terrorismo. Al Corriere della Sera seguì tutte le vicende relative agli “anni di piombo”. Uno dei suoi ultimi articoli sui terroristi rossi è considerato tra i più significativi sin dal titolo: “Non sono samurai invincibili”.

Walter Tobagi – 33 anni, moglie e due figli, scrittore e docente universitario, presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti – venne ucciso alle 11 di mattina sotto casa con cinque colpi di pistola da un gruppo di assassini della Brigata 28 Marzo poco dopo essere uscito di casa. A sparare furono Marco Barbone e Mario Marano.