Monologo di un cronista di provincia in pena per una querela infondata

Mauro Delgrosso, giornalista, collaboratore del quotidiano La Repubblica, edizione Emilia Romagna, racconta a Ossigeno l’angoscia che ha provato per tre anni per una querela per diffamazione con richiesta di danni, il sollievo per l’assoluzione con formula piena (Leggi la notizia) e per il guaio di dover comunque pagare le spese legali. Finché…

OSSIGENO – 4 aprile 2021 – di Mauro Del Grosso – Ricevo di prima mattina una telefonata dai Carabinieri: “Per cortesia può venire in caserma? Dobbiamo notificarle un atto”. Silenzio. Poi dico: “Arrivo”. Vado. E’ una querela. Noto l’imbarazzo del maresciallo che mi notifica l’atto. Lo conosco da sempre, per le notti passate insieme durante la ricerca di un disperso, dopo un incidente stradale, quando sono accorso dove c’era un morto ammazzato…“Vedrai, tu sei bravo mi dice -. Finirà in una bolla di sapone. Mica ti rinviano a giudizio!”.  Per la serie: le ultime parole famose.

Passo alcuni mesi a bagnomaria, poi, puntuale, un venerdì arriva il rinvio a giudizio. Evvabè, mi dico, ci penserò lunedì, e me ne vado per boschi, mia seconda casa, come faccio sempre quando ho bisogno di pensare, di chiarirmi le idee.

Primo punto. Lo devo dire a mia moglie? E a mia figlia? Meglio di no. Loro si preoccuperebbero, sicuramente non capirebbero. Secondo punto. Mi tocca difendermi in tribunale, per aver fatto lo spavaldo giornalista di campagna. Io, oltretutto sono solo un collaboratore del giornale e un pubblicista, quasi un niente per le testate per cui scrivo. Ma in che cosa ho sbagliato? Voglio credere che non abbiano capito come stanno le cose, se sono arrivati al punto di rinviarmi a giudizio.

Ho mille dubbi. E immagino quale sarebbe il discorso della mia gentile consorte (in questi casi, non è mica tanto gentile): “Mi spieghi che cosa ci guadagni a pubblicare certe notizie? Sempre e soltanto rogne. Tanto lo sai che le cose in Italia non cambiano. Mica ti danno la medaglia. Il tempo che perdi, se non sai proprio cos’altro fare, potresti impiegarlo meglio tagliando un po’ di legna, portando in giro i turisti per funghi o dando ripetizioni, così tanto per portare a casa una telefonata”.

Le mogli hanno sempre ragione, anche se costa riconoscerlo. Ho deciso: non le dirò nulla fino alla fine del processo. E meglio. Così evito di sentirmi cantare le cattive ragioni e soprattutto evito di farla preoccupare, non se lo merita proprio. Farla preoccupare non servirebbe a niente, anzi. La somma di due persone stressate non fa un soggetto sano. Sì, lo stress fa male, può anche uccidere.

Cammino, salgo di quota, quasi senza accorgemene. Penso: ma in fondo, io che cosa ho fatto? Soltanto il mio lavoro: ho riportato i fatti e le circostanze. Io a Borgotaro ci vivo. Ho visto con i miei occhi le persone che stavano male. Le ho intervistate. La puzza la sentivamo tutti. Ci sono montagne di documenti, di atti, di delibere, anche se ne hanno parlato in tanti, su tanti giornali, su tante tv. E poi: perché hanno querelato solo me, non il giornale, non il direttore? Perché non se la prendono con quelli che ho citato, il sindaco e il direttore della AUSL. Mica le sono inventate, le loro affermazioni.

Cammino, cammino e inizio ad avere caldo. Inizia a montarmi dentro un non so che di rabbioso. Mi bagno la faccia alla mia solita sorgente, quella che condivido con tritoni e salamandre. Niente da fare. Sento un caldo bestiale, anche se il clima è freddo. Dall’atteggiamento preoccupato passo a quello dell’arrabbiato, anzi decisamente del furioso.

Eccheccazzo! Sono a casa mia, ho detto la verità, che cosa vogliono da me? Vogliono un risarcimento bestiale… Vogliono cacciarmi in galera… Dicono che li ho sputtanati e ho causato un danno enorme. Vogliono una meontagna di soldi, tanti quanti non io non potrei guadagnare neanche in dieci vite. Roba da restare impietrito e in mutande per il resto della vita.

Io sono una sfigatissimo cronista di provincia, appassionato di giornalismo, amante delle mie montagne, della mia gente, del mio ambiente, solo e minuscolo, contro un gigante, contro una multinazionale delle piastrelle, valutata centinaia di milioni di euro. Ed ecco come può finire in un casino inimmaginabile uno come me che vive a Borgo Val di Taro, in pieno Appennino parmense, ai margini del tutto, nel niente. Roba da fantascienza. Roba da disturbo intestinale incontenibile e perenne.

Chiamo l’amico di sempre, uno di quelli modello “pane al pane, vino al vino”. Io ho le idee ancora un pò confuse, la linea prende male, come accade quasi sempre, qui nei boschi. Capisco bene solo una frase che mi ripete più volte: “Pensa ai partigiani! Quel che succede a te è una cazzata, al confronto. Se hai ragione, e penso che tu ce l’abbia, non rompere le palle, tira fuori la grinta, lotta e fatti valere”. Il mio incubo inizia ad essere meno nero, vedo gradazioni di grigio. Penso meno alle condanne a morte per impiccagione e più alle fustigazioni in una pubblica piazza. In fondo ha ragione, l’amico mio.

E’ quasi buio quando esco dal castagneto e chiamo l’avvocato di famiglia, come si usa in Appennino.  “Vieni e ne parliamo. Non ti preoccupare: in galera danno ancora da mangiare. Magari poco, per te, visto quanto mangi, ma sopravviverai”, dice per conformarmi e fa una risatona (lui!). Vado a trovarlo lunedì, mi dice “stai sereno”, fa un’altra risatona (ride anche stavolta solo lui!) e mi presenta Andrea Cantoni, un suo giovane, un ragazzo, assicurandomi che è una bomba di penalista”.

Passano i mesi, si avvicina la prima udienza, facciamo riunioni, proprio come nei film americani. Telefonate su telefonate, email, come non ci fosse un domani; raccogliamo tante prove materiali, spendiamo un po’ di soldi. Si studia, tanto. Ci appassioniamo, anche. Scavando scopriamo tante altre cose, collegate al caso e le conserviamo, non si sa mai, potrebbero servire da qui a non si sa bene quale grado di giudizio. Cerchiamo testimoni. Questa è la preoccupazione del mio difensore, che è un vero mastino e ha sempre paura di non averne abbastanza.

Andrea Cantoni è uno che vuole essere strasicuro. Ed ecco, ecco la prima grande sorpresa, positiva: trovo tutti disponibili, tutti sereni. Qualcuno, quando gli anticipi, per cortesia, che sarà convocato in tribunale ha qualche comprensibile timore. C’è chi si sente poco adatto, per indole, a volte troppo battagliera, a volte poco razionale. “Ho paura di esagerare, visto quello che è successo”, dice uno di loro. Dico a tutti: devi dire la verità, solo la verità, nient’altro, vedrai che sarà facile.

Intanto, anche se siamo in piena emergenza Covid, anche se io sono un soggetto a rischio, i lavori preparatori procedono senza sospensione. Le spese vanno su, il mio conto corrente va giù. Non c’è nessun ristoro per i giornalisti fessi e querelati come me. Non c’è un ristoro nemmeno per molti di quelli che lavorano già per un tozzo di pane raffermo.

Ma ecco un’altra sorpresa, anche questa positiva, da parte di quelli che sono venuti a sapere della tua disgrazia legale, perché nelle comunità di montagna, le voci corrono veloci come il vento di sprovino. Mi chiamano. Mi chiedono: “Hai bisogno di una mano? Ti serve qualcosa? Soldi?” No grazie, rispondo, ho un avvocato sostenibile, poco alla volta ne verrò fuori. Rifiuto. Però mi fa un piacere immenso: dai, in fondo non sono proprio solo.

Parallelamente mi ricominciano a girare gli zebedei: senza contare il tempo perso, le spese corrono. Spendo soldi guadagnati faticosamente, tolti alla mia famiglia, anche a me stesso, e in un anno di crisi nera, anzi nerissima. E per che cosa? Per aver fatto il mio dovere, di cittadino e di giornalista: me lo ripeto e sempre mi monta una certa rabbia.

Finalmente cominciano le udienze, scorrono le testimonianze. Io non assisto al processo, non posso partecipare,:il mio medico lo ha vietato in modo perentorio, per il Covid. Se mi contagio, muoio, dice. Mi spiace. Avrei voluto guardare negli occhi il mio querelante e chi gli ha dato corda. Avrei voluto guardarli, da montanaro a uomo di città, da uomo a uomo, da cronista di provincia, per vedere cosa c’è dietro allo sguardo di chi querela senza chiedere prima una rettifica, una precisazione, una smentita, senza un vero, fondato motivo. Li avrei guardati senza sentimenti di vendetta, perché sono un cronista di provincia. Per capire cosa c’è dentro alla testa di certa gente. Ma, pazienza, il rischio-Covid mi ha privato anche di questa opportunità.

Ed eccoci arrivati al 14 dicembre 2020. Sono passati tre anni e sei mesi e finalmente arriva la sentenza. Il mio avvocato me l’ha comunicata al telefono una tarda mattinata di un giorno che la sentenza ha reso indimenticabile. E’ contento. Mi dice ridendo: “Sei un uomo libero! Complimenti”.

Come speravo, come avevano previsto il mio legale e i miei amici, è un’assoluzione totale. Lo scrive il giudice ed è bello leggero e rileggerlo: i fatti che ho narrato nel giungo 2017 erano veri, precisi, non c’era niente di più e niente di meno. Conservo gelosamente le dodici pagine di motivazione. Sono ineccepibili.

Ha ragione anche quando fa osservare che avrei fatto meglio a usare l’aggettivo empirico piuttosto che scientifico. Confesso che è la prima cosa che avevo detto io stesso al mio avvocato, quando abbiamo analizzato insieme il mio articolo in modo analitico. Non convinceva neanche me. Se lo avessi potuto riscrivere, avrei cambiato soltanto quella parola. Grazie giudice.

Epilogo finale (forse!). Siamo prossimi al Natale 2020. Siamo a casa Delgrosso. Fuori c’è una neve come non se ne vedeva da tempo. Si cena con una bella fiorentina cotta in piedi e una montagna di patate raccolte nel mio bosco, quello dove vado a meditare e a grigliare. Finalmente informo i mei familiari. Senza dare importanza alla cosa, dico a mia moglie: “Per cortesia, passami il sale. A proposito: sai, la Laminam mi ha querelato, per un articolo e ha chiesto una barca di soldi. Si è già fatto il processo, e mi ha dato ragione. Ho vinto io”. Replica della moglie: “Bravo, però ora smettila di fare il coglione. Lo sai che certe cose mi irritano; vuoi uomini siete sempre a fare risse, a cercare guai, vi piace mettervi contro chi è più grande e più grosso. Stavolta ti è andata bene, ma sarai sempre così fortunato?”. E dopo una pausa: “A proposito, quanto hai speso per difenderti?”.

Colpo basso che non ho potuto evitare. Ho dovuto ammettere che da questo punto di vista la vittoria è stata amara. Le spese ci sono state e mi sono rimaste sul groppone nonostante fossi stato assolto, nonostante il giudice avesse detto che avevo sbagliato soltanto un aggettivo inessenziale. E’ assurdo che in Italia se qualcuno ti querela e ti chiede un sacco di soldi devi affrontare un processo lungo e costoso. E’ assurdo che il giornale voluto leggere il mio articolo e la sentenza. Si è fatta spiegare il problema delle spese legali di cui nessuno aveva parlato. Non conoscevo questa organizzazione e ho scoperto con piacere che si occupa proprio dei cronisti sfigati come me, che è impegnata ad aiutarli e a fare conoscere i guai che passano e le leggi che li permettono.

Qualche giorno dopo mi ha telefonato il direttore di Ossigeno. Ha voluto verificare con me proprio il punto più dolente della vicenda: la mancata assistenza del mio editore e le spese che erano rimaste a mio carico nonostante fossi stato assolto in tribunale. Questa è una delle ingiustizie contro cui combattiamo , mi ha detto, e se permetti, segnalerò il tuo caso all’ufficio legale del gruppo Gedi. Se non intervengono loro, ti daremo una mano noi. Pochi giorni dopo mi ha richiamato e mi ha detto che il problema era risolto. Ti chiameranno gli avvocati di Gedi per dirti che pagano loro le spese legali, che se fossero informati della vicenda si sarebbero fatti carico della querela fin dall’inizio. Non so come mai non fossero stati informati. Io ne avevo parlato con i miei colleghi. Ma non importa.

Fatto sta che in effetti mi hanno chiamato e io mi hanno tolto un peso … dal cuore. Grazie. E un ringraziamento speciale a Ossigeno. Ci tengo a fare sapere a tutti che esiste questa organizzazione e si preoccupa di risolvere questi problemi che pesano molto sulla vita di noi cronisti di provincia. Ossigeno interviene sia sul piano pratico, concreto, ma anche e soprattutto con un sostegno umano, con la solidarietà e il supporto morale. Mauro del Grosso

ASP

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