Editoriale

Consentire ai giornalisti accesso agli atti giudiziari

Questo articolo è disponibile anche in: Inglese

Questo intervento è stato pronunciato da Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno per l’Informazione, a Roma, il 27 febbraio 2018, alla Biblioteca Nazionale Centrale al corso di formazione ASR-Ossigeno sul tema  “Libertà di stampa e acceso alle fonti giudiziarie e amministrative”

E’ evidente che le informazioni di fonte giudiziaria sono molto importanti per i cronisti. E’ altrettanto chiaro che per accedere a queste informazioni si va incontro a grandi problemi, innanzitutto perché questo accesso non è regolamentato in forma positiva – cioè non si dice quali sono le forme e i canali corretti da utilizzare, che certamente non possono essere soltanto i comunicati ufficiali delle Procure. Questo accesso è regolato da consuetudini che contraddicono e di fatto superano divieti, limitazioni, sanzioni per i trasgressori e danno spunto a iniziative giudiziarie particolarmente severe e invasive nei confronti di chi pubblica informazioni provenienti da cosiddette “fughe di notizie”: perquisizioni, sequestri, oscuramento di pagine web e blog, ordini di rivelare la fonte rinunciando al segreto professionale, condanne per pubblicazione arbitraria di atti o violazioni del segreto d’indagine. Alcune di queste iniziative superano i limiti imposti non solo dal fair play ma dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che pone rigide limitazioni alle perquisizioni personali dei giornalisti e delle redazioni e ai sequestri di archivi, computer e altri strumenti di lavoro dei cronisti.

Tutto ciò suscita discussioni senza fine e pesa enormemente sull’attività di cronisti e giornali poiché essi, oltre alle difficoltà del reperimento delle informazioni, devono sostenere una pressione intimidatoria forte e diffusa, che si manifesta con minacce e ritorsioni e querele per diffamazione al 90 per cento pretestuose e infondate, da parte di soggetti che ritengono di essere stati danneggiati ingiustamente, non tanto da eccessi e indebite offese alla reputazione personale (che pur ci sono, ma riguardano meno dell’8 per cento dei casi) ma dalla pura e semplice pubblicazione di informazione che li mettono in cattiva luce.

Questo fenomeno purtroppo non è marginale, non è ininfluente sulla libertà di espressione, né irrilevante per il problema specifico di cui ci occupiamo, poiché gli attacchi di questo tipo piovono come pioggia sul bagnato. Essi pesano moltissimo, perché sono temibili e al 99 per cento restano impuniti.

Secondo il monitoraggio di Ossigeno per l’Informazione, i cronisti e blogger colpiti da questi attacchi dal 2006 a oggi sono stati oltre cinquantamila. Nel 2017 l’Osservatorio ha elencato i nomi di 423 di loro, nel primo mese di quest’anno ne ha elencati altri 31. Dal 2006 a oggi i nomi elencati nella lista di Ossigeno sono 3537, e aumentano di giorno in giorno. Ognuno di questi nomi corrisponde a una grave violazione della libertà di stampa e di espressione che Ossigeno ha accuratamente verificato e riferito in modo attendibile, come ha certificato più volte la Commissione Parlamentare Antimafia, riconoscendo la natura e la dimensione del problema e raccomandando al Parlamento di affrontarlo con urgenza con specifici provvedimenti legislativi.

Per descrivere le difficoltà di un cronista giudiziario che cerca di conoscere un atto giudiziario non coperto dal segreto di indagine, ad esempio un’ordinanza di custodia cautelare già eseguita, userò testualmente le parole del presidente dell’ANAC, dottor Raffaele Cantone, che lo ha fatto con precisione e acutezza in un recente articolo:

“A seconda delle circostanze, (il cronista, ndr) deve confidare nella “benevolenza” degli inquirenti, di un avvocato, degli investigatori o del funzionario di turno. Può sembrare secondario ma non è affatto una questione neutra. Al contrario, finisce per essere una distorsione evidente, perché questa situazione non consente un rapporto paritario tra la fonte e il giornalista. Proprio per effetto di tale subalternità, infatti, quest’ultimo (il giornalista, ndr) rischia di essere indotto a nutrire riconoscenza verso chi gli passa le “carte”, col rischio di minare l’imparzialità di cui dovrebbe essere portatore”.

“(…) Come si può pensare che la stampa eserciti il suo ruolo, costituzionalmente riconosciuto, se poi non la si mette in condizione di svolgere al meglio tale impegnativo compito? Ed ancora: può quest’ambito restare non regolato in un sistema che ha già introdotto il Foia? Perché dunque non sanare questa lacuna riconoscendo ai giornalisti un accesso, sia pure rispettoso dei diritti delle parti coinvolte nel processo, agli atti depositati? I vantaggi sarebbero molteplici: avremmo la garanzia di un’informazione meno sbilanciata e sarebbero ridotti i rischi di rapporti poco chiari con le fonti o di manipolazione che possono derivare da un accesso “privilegiato” ai documenti d’indagine (leggi).

Il dottor Cantone lo dice e lo propone da dieci anni, se non vado errato. Io condivido pienamente, fin da allora, questa sua proposta. Lo dico ripetendo e facendo mie queste altre sue parole:

“Ritengo che un argomento così rilevante, determinante per la nostra democrazia, richieda che si apra davvero un dibattito pubblico e si superi quella che è oggi una tollerata ipocrisia”.

Credo che la proposta di “consentire ai giornalisti un accesso rispettoso agli atti” con un provvedimento specifico sia ancora più motivata dopo il recente aggiornamento del FOIA. Questo aggiornamento del 2017 ha deluso le legittime aspettative dei giornalisti di vedere risolto questo e altri problemi, stabilendo che non può avvenire consegna di atti della pubblica amministrazione senza il consenso delle parti contro interessate. Ciò vale per tutti, quindi anche per i giornalisti. Ciò rischia di comprimere il diritto già riconosciuto ai giornalisti di conoscere e pubblicare informazioni senza il consenso preventivo delle parti contro interessate. Il dottor Cantone è il massimo esperto della materia. Ci dirà se non è così. A noi sembra così, in base a uno studio dell’esperto legale di Ossigeno, avvocato Andrea Di Pietro, pubblicato sul nostro sito.

Quest’ultima questione ci porta comunque a quello che considero il problema irrisolto più grande e più generale: manca una legge speciale sulla stampa per stabilire uno stato giuridico appropriato per chi esercita la professione giornalistica osservando gli obblighi di correttezza e i doveri etici sul cui rispetto vigilano organi dotati di poteri sanzionatori. Oggi, in Italia, a questi obblighi e a queste responsabilità non corrispondono prerogative adeguate. La legge non protegge il giornalista dalle conseguenze ingiuste cui è esposto durante il corretto svolgimento della sua attività, non lo protegge come sarebbe necessario in considerazione del fatto che il diritto di informazione che egli esercita nell’interesse pubblico prevale su altri diritti con i quali confligge in modo routinario ad esempio, il diritto alla riservatezza, alla reputazione personale, all’onore.

Altre professioni hanno leggi che conferiscono uno stato giuridico adeguato a questi scopi. Basta pensare ai medici, agli avvocati, ai magistrati, alle forze dell’ordine… Ognuna di queste professioni gode di speciali privilegi e prerogative, in ragione del ruolo di interesse pubblico riconosciuto dalla legge in funzione del ruolo di interesse pubblico che svolge e con le limitazioni imposte dall’etica e dalle regole della propria categoria.

Perché ciò non viene riconosciuto formalmente anche ai giornalisti?

Il giornalista svolge una indubbia funzione di pubblico interesse, ma risponde di ogni suo atto come un qualsiasi cittadino. Se per informare l’opinione pubblica danneggia qualcuno e questi gli contesta la violazione della riservatezza o l’offesa alla reputazione, come avviene spesso, viene sottoposto a un processo e deve dimostrare a un giudice di avere agito in modo deontologicamente corretto per assolvere un dovere imposto dalla legge, dai trattati internazionali, dall’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’esempio più clamoroso di queste disparità è dato dall’applicazione delle norme sulla diffamazione a mezzo stampa ai giornalisti. Chi, pur rispettando le norme deontologiche e i doveri di correttezza, pubblica una notizia vera, fondata, ragionevolmente verosimile, attuale e di interesse pubblico, riferendo che un personaggio pubblico (quindi che ha un diritto meno esteso alla tutela della propria reputazione e della propria riservatezza) ha avuto un comportamento negativo che lo fa apparire in cattiva luce, può essere querelato o citato in giudizio e anche se la sua correttezza è palese, deve affrontare un processo e dimostrare la propria innocenza. E’ necessaria una sentenza per stabilire che non è punibile ai sensi dell’art. 51 Cp, avendo esercitato un diritto. La norma giuridica è l’articolo 2 della legge n.63/1963 con cui è stato istituito l’Ordine dei Giornalisti, secondo la quale ”è diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica”.

Questo percorso contorto, ingiusto, punitivo, che dovremmo eliminare stabilendo una parità di trattamento con altre professioni, è imposto ogni anno ad almeno cinquemila giornalisti, secondo i dati ufficiali del Ministero della Giustizia, pubblicati da Ossigeno per l’Informazione. Compiere questo percorso richiede mediamente da due a sei anni, e comporta spese legali per l’importo di 54 milioni di euro, quasi tutti a carico dei giornalisti. Questa ingiustizia incoraggia l’uso pretestuoso, a scopo intimidatorio, delle querele e delle cause per danni.

ASP

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.