LE CARENZE LEGISLATIVE

Nella Costituzione italiana la parola “informazione” non compare in nessuno dei 139 articoli. Né sono inserite nel testo espressioni che recepiscono esplicitamente il diritto di informare e di essere informati, di cercare e diffondere liberamente opinioni e informazioni, già proclamato nel 1948 dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo all’articolo 19. Probabilmente per ragioni storiche, la Costituzione italiana non afferma esplicitamente che la libertà di stampa è un bene comune, un presidio della democrazia, un suo prerequisito. Inoltre, l’intero ordinamento italiano non prevede norme sanzionatorie per reprimere i comportamenti messi in atto consapevolmente per ostacolare la libertà d’informare e di essere informati. Al contrario, le norme che si occupano dell’informazione – dal codice penale alla legge sulla stampa – sono concepite per contenere e limitare quella libertà per rispettare altri diritti o, come si dice, per reprimere gli abusi che giornalisti ed editori potrebbero fare di quella libertà.

Le norme vigenti hanno la funzione esclusiva di perimetrare l’esercizio del diritto di informazione. La norma più punitiva prevede che per il reato di diffamazione aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato un giornalista rischia fino a sei anni di carcere. È paradossale che questa norma non sia stata introdotta dal Codice penale del 1930, ma dalla legge n.47 dell’8 febbraio del 1948, da una legge repubblicana, approvata dall’Assemblea Costituente sulla base della XVII Disposizione transitoria e finale della Costituzione. Dunque, una legge dell’Italia risorta a democrazia, non il codice penale del periodo fascista. Ci sono altri esempi di leggi che regolano in senso limitativo le prerogative degli operatori dell’informazione e andrebbero perciò aggiornate.

Il segreto professionale è pienamente riconosciuto dall’articolo 200 del codice di procedura penale a una serie di figure, ma non ai giornalisti professionisti (i pubblicisti sono del tutto esclusi) ai quali il giudice può ordinare la rivelazione della fonte fiduciaria delle notizie. Se il giornalista non ottempera all’ordine del giudice rischia l’incriminazione per falsa testimonianza (per reticenza): pena edittale da due a sei anni di reclusione.

Il fatto che l’accesso agli atti della pubblica amministrazione non sia consentito ai cittadini (salvo per quelli che li riguardino direttamente) e neppure ai giornalisti concorre a limitare la raccolta delle informazioni di pubblico interesse e la funzione di controllo dell’informazione giornalistica.

Alla libera circolazione delle informazioni vengono frapposti altri ostacoli definiti, di volta in volta, diritto alla privacy, segreto d’ufficio o istruttorio, o d’indagine o di Stato. Tra i diritti dei cittadini (e dei giornalisti) non c’è l’accesso diretto agli atti della pubblica amministrazione. Non esiste ancora in Italia l’equivalente di leggi quale il Freedom of Information Act vigenti da anni, se non da decenni, in Paesi come la Svezia, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna per assicurare la trasparenza della pubblica amministrazione. Purtroppo queste innovazioni tardano e intanto nuove leggi aggiungono altri ostacoli, altri paletti, alcuni partoriti da nobili intenti. Per esempio, il diritto all’oblio e l’estensione delle norme previste per l’informazione stampata ai media diffusi su internet previsti dal ddl sulla diffamazione in modo semplicistico. La materia è delicata. Un riconoscimento “facile” e generalizzato del diritto all’oblio può produrre la cancellazione della memoria storica e collettiva. Distruggere i contenuti di archivi cartacei e digitali è pericoloso, può sconfinare (fino a sovrapporsi) nella censura repressiva. Ben diverso sarebbe prevedere l’aggiornamento degli archivi dei giornali e dei motori di ricerca, secondo quello che pare essere l’orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione.