Il virus e la democrazia disintermediata

di Sergio Baraldi – In una società mediatizzata, si è mediatizzata anche l’emergenza sanitaria. Il premier punta a dirette solitarie social e tv. Saltando istituzioni e informazione. Ma rischia di aggiungere altra ansia.

L’epidemia sta mettendo in scena nuove forme di democrazia disintermediata. Lo ha dimostrato lo stesso premier Conte con i suoi ripetuti discorsi alla nazione, soprattutto l’ultimo, sabato 21 marzo 2020, una diretta Facebook notturna con cui ha comunicato personalmente ai cittadini le decisioni di chiusura del governo. Interventi che si inseriscono in un contesto politico in cui il Parlamento è fermo per sfuggire al contagio, e la drammaticità della crisi spinge le istituzioni a decidere in tempi rapidi.

Senza che sia stato programmato da nessuno, l’emergenza sanitaria sta riconfigurando le relazioni tra classe politica e comunità nazionale. L’epidemia ha impresso un’accelerazione a tendenze già in atto: le tecnologie della comunicazione sono utilizzate da tempo come canale per avvicinare i cittadini, saltando le classiche mediazioni di istituzioni, partiti, informazione. Una prova ulteriore della mediatizzazione e ibridizzazione della società. Le trasmissioni “plebiscitarie” del premier hanno lo scopo di fare meglio il proprio lavoro al tempo del virus, ma possono sollevare alcune riflessioni.

Innanzi tutto, stiamo decidendo che principi costituzionali egualmente garantiti, salute e lavoro, in realtà devono sottostare a una rigida gerarchia: prima la salute poi il lavoro. Probabilmente è una scelta giusta, ma la adottiamo saltando il confronto in Parlamento, che in teoria rappresenta il popolo sovrano, e quindi nella sfera pubblica, per dare vita a uno “spettacolo” tv e social unidirezionale: dal governo ai governati.

Non c’è ancora il dibattito in aula tra le diverse forze politiche che si confrontano di fronte al Paese, sia pure per condividere una terapia d’urto come la chiusura. Non ci sono giornalisti che fanno domande scomode. Anche eventuali dubbi sui tempi delle scelte, che potrebbero essere chiariti, restano sospesi: perché non si è deciso prima di chiudere? Non ho dubbi sull’impegno del presidente Conte. Tuttavia in una società mediatizzata ora anche l’emergenza sanitaria si è mediatizzata. La prima conseguenza è che mai come oggi la politica è comunicazione. E la comunicazione politica.

La disintermediazione consiste nella rimozione delle mediazioni. Una prima osservazione è che questa non è una disintermediazione dal basso, l’obiettivo dichiarato del populismo per rimuovere ogni ostacolo al dispiegarsi della voce del popolo. Un obiettivo che, in realtà, affida un potere carismatico al leader che interpreta la volontà popolare. Questa è una disintermediazione al contrario, attuata dall’alto, vale a dire da Palazzo Chigi. Se è vero che siamo in uno stato d’eccezione e, come insegna Carl Schmitt, “sovrano è colui che decide dello stato d’eccezione”, qui a decidere è l’élite. Un elemento sottovalutato, perché non toglie ma ridà spazio alla contrapposizione élite-popolo, che alimenta il populismo.

Inoltre, diventa fondamentale stabilire un precedente che fissi principi, norme di condotta per un possibile evento futuro, altrettanto catastrofico. Le caratteristiche del precedente che viene delineato oggi non costruiscono una narrazione dell’emergenza in cui il Paese si muove insieme: le istituzioni discutono, decidono, agiscono in fretta e cooperano; partiti e opinione pubblica evitano divisioni profonde, non le differenze. Il precedente che viene creato è l’opposto: parla solo il leader, mentre sullo sfondo rimane il rumore di altre voci. L’assenza del Parlamento potrebbe indurre molti cittadini a ritenere che, durante le crisi, la discussione democratica sia poco utile o persino d’impaccio.

Se la comunicazione è politica, questo stile comunicativo evoca il fantasma di una presidenzializzazione della carica di premier. È come se la politica avesse metabolizzato l’antipolitica, applicandone i mezzi. Come avrebbero reagito i progressisti se l’avesse fatto un Salvini premier?

Ci sono altri interrogativi. Nonostante i discorsi avvengano in pubblico, il requisito della trasparenza non è soddisfatto in pieno: i decreti, per esempio, sono arrivati solo dopo molte ore. Non c’è traccia non tanto di una partecipazione dei cittadini, in questo caso impossibile, ma di un coinvolgimento dell’opinione pubblica, che sappiamo già percorsa da disaffezione e sfiducia verso le autorità.

I cittadini sono presenti solo nella veste tradizionale (e passiva) di destinatari della comunicazione. Non è considerata la mobilitazione cognitiva, teorizzata da Inglehart, in virtù della quale gli individui hanno rivendicato (e ancora rivendicano) le competenze per orientarsi e decidere in modo autonomo. L’opera di chiarimento e di persuasione su un piano di parità è più frutto di intellettuali, attori, personaggi pubblici che delle istituzioni. Partecipazione e mobilitazione cognitiva sono strumenti utili per controbilanciare la crisi della rappresentanza delle democrazie moderne. Ma qui si perpetua con nuovi mezzi un rapporto verticale e non orizzontale.

La disintermediazione attuale, infatti, sembra assolvere ad altre funzioni. Una è offrire una risposta manageriale all’epidemia. Un’altra è trasmettere istruzioni ai cittadini. La terza è l’interpretazione da parte del premier del ruolo di leader disintermediato, vale a dire meno vincolato dalle mediazioni. Il messaggio implicito è che per questo il Presidente è in grado di decidere. Subito.

Il risultato si ottiene al costo di un’ulteriore drammatizzazione, spettacolarizzazione, personalizzazione della responsabilità di governo. Una responsabilità che il pubblico potrebbe intendere non come il rendere conto agli altri, o lo spiegare con chiarezza le ragioni del provvedimento, ma come potere di decidere. È la media logic interiorizzata da una politica in affanno di fronte al contagio. Ma questo metodo, che nelle intenzioni vorrebbe rassicurare l’opinione pubblica, in realtà rischia di caricare nuova ansia su una società già angosciata. Perché rafforza l’allarme.

Forse lo spettacolo dovrebbe inscenarlo tutta la democrazia: lo spettacolo di una battaglia che ci accomuna. La nostra democrazia potrebbe cogliere l’occasione per ridurre la distanza tra governanti e governati e mostrare, proprio nella crisi più dura, il mondo possibile di un governo (secondo la formula di Lincoln) del popolo, con il popolo, per il popolo. Vale a dire apparire e essere una istituzione trasparente, composta di voci plurali ma coordinate, capace di aggregare e di coinvolgere l’opinione pubblica per il bene comune. In fondo è questo l’esempio dei medici e degli infermieri che lottano con coraggio sul fronte degli ospedali. Se un’azione è vista come condivisa, per quanto guidata da un leader, può trasmettere fiducia, perché tendiamo a identificarci con le scelte del nostro gruppo (oggi il Paese).

Al tempo della quarantena, manca quindi il racconto della solidarietà, che connetta le persone isolate a casa in modo da non farle sentire sole perché senza gli altri, ma perché vivono una speciale solitudine insieme agli altri. È vero: serve velocità contro il virus, ma non sembra indispensabile un premier in diretta solitaria. Per affrontare il virus dell’ansia sociale abbiamo bisogno di credere che anche tu lotti con e per la tua comunità. Invece, messi alla prova, stiamo simulando una democrazia disintermediata. E non sembriamo rendercene conto.

Sergio Baraldi

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