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Mafia. Prima della Strage di Capaci: come cadde il muro del silenzio e dell’impunità

Questo inquadramento storico è tratto dal dossier “Molta mafia, poche notizie” Leggi. Ossigeno lo ripropone nel 30mo anniversario della Strage di Capaci del 23 maggio 1992 

IL MURO DEL SILENZIO

“Ricordo il tempo in cui alcuni, esprimendo un dubbio vero o simulato, ancora si chiedevano se la mafia esisteva davvero, nel loro quartiere, nella loro regione, nell’intero paese. Poi non fu più possibile dubitarne, grazie all’informazione giornalistica su questo tema”, ha detto Marcelle Padovani, giornalista e scrittrice francese, storica corrispondente da Roma del “Nouvel Observateur“.

Da allora – ha aggiunto – molto è cambiato, anche all’interno del mondo dell’informazione. Oggi nessun giornalista, come ricorda spesso il mio collega Francesco La Licata, si sognerebbe di scrivere su un giornale “il presunto mafioso Michele Greco”. Nessuno si premurerebbe di dedicare una pagina del suo giornale al punto di vista del mafioso, e un’altra al punto di vista dell’antimafioso, come invece si faceva ai tempi del maxiprocesso di Palermo, come si fa ancora oggi su altri temi in ossequio a una certa idea “equilibrata” dell’obbiettività”. 

Fino a cinquant’anni fa le cose andavano così per la maggior parte dei media italiani: la mafia era un argomento tabù anche per i giornali. Pochi i osavano parlarne. Gli altri tacevano. Intervenivano soltanto per criticare chi ne parlava, per negare che esistessero organizzazioni criminali di quella fatta, cioè che traevano forza e potere dalle intimidazioni sistematiche e dalle connivenze con il mondo politico ed economico. I giornali che negavano l’esistenza della mafia ripetevano le tesi di ministri, vescovi, imprenditori i quali affermavano apertamente: “la mafia non esiste, è un’invenzione”, e aggiungevano: coloro che sono indicati come pericolosi mafiosi non sono altro che banditi, malavitosi di poco conto che si scannano fra loro, si eliminano a vicenda e pertanto non è necessario dedicare ad essi alcuna speciale attenzione politica, investigativa e mediatica. Lo dicevano in Sicilia e a Roma ministri, politici, imprenditori, banchieri, vescovi. Lo dicevano a dispetto di ciò che i fatti mostravano, centinaia di omicidi impuniti, di morti ammazzati, di esecuzioni barbare, di attentati dinamitardi che tutti sapevano a chi imputare ma che la magistratura non era in grado di punire nonostante molti indizi fossero raccolti in monumentali rapporti di polizia e trasferiti in fascicoli giudiziari. 

Le forze dell’ordine arrestavano mafiosi di piccolo rango, i “soldati”, gli uomini che riscuotevano il pizzo per le cosche, o quelli che rubavano greggi e armenti, controllavano i prezzi nei mercati, gli impieghi di manodopera, gli appalti pubblici, o quelli che punivano con ferocia chi si opponeva alle imposizioni mafiose. “Volano solo gli stracci”, si diceva. Nessuno riusciva a toccare i capimafia, i mandanti, che costringevano i complici a mantenere il più assoluto silenzio imponendolo con il terrore. La legge non scritta dell’omertà rendeva i testimoni dei delitti muti, ciechi e sordi. Chi violava la consegna del silenzio era punito con la morte. Le esecuzioni erano eseguite con macabri rituali che comunicavano simbolicamente quale trasgressione era stata punita con tanta ferocia. 

Attilio Bolzoni ha ricordato a questo proposito “l’immagine plastica del film di Giuseppe Ferrara ‘Il sasso in bocca”, che uscì nelle sale nel 1971.

LA SFIDA DEL QUOTIDIANO L’ORA

Negli Anni Cinquanta, i giornali italiani non osavano pubblicare i nomi dei capimafia. Era troppo pericoloso. Fu il mitico quotidiano L’Ora di Palermo, celebre per questo in tutto il mondo, il primo a pubblicare i nomi dei capimafia in carica. Pubblicò l’elenco e in prima pagina la foto gigante del capo di Cosa Nostra, Luciano Liggio sotto la scritta a caratteri giganti “Quest’uomo è pericoloso”, Fu una aperta sfida al potere mafioso. E Cosa Nostra reagì all’istante, con un attentato dinamitardo che danneggiò la tipografia. I giornalisti dell’Ora furono minacciati . Per molto tempo furono costretti a vivere sotto scorta. 

Quella trasgressione, come un colpo d’ariete, aprì la prima breccia nel muro del silenzio. Dopo di allora, lentamente, le cose cominciarono a cambiare, innanzitutto sul piano politico. 

Nel 1962 il Parlamento confermò definitivamente l’esistenza e la pericolosità sociale della mafia istituendo la prima Commissione parlamentare di inchiesta della storia della Repubblica su quel fenomeno che si manifestava con molteplici delitti. Molte caratteristiche della peculiarità politico- criminale del fenomeno, furono analizzate e descritte con molteplici esempi nella prima monumentale Relazione che la Commissione consegnò al Parlamento nel 1976, dopo 13 anni di inchiesta. L’attività della Commissione allargò enormemente la breccia aperta dal giornale L’Ora. Creò nel muro del silenzio un definitivo grande squarciò. Il mondo dell’informazione ne beneficiò enormemente e cominciò a dedicare più attenzione e più spazio ai fatti di mafia. 

LA LEGGE CHE BLOCCÒ L’IMPUNITÀ

Le proposte della Commissione rimasero chiuse nei cassetti per 5-6 anni. Soltanto, nel 1982 il Parlamento trasse le prime conclusioni approvando la storica legge Rognoni-La Torre. Essa inserì nel codice penale un’innovazione radicale: il reato di associazione mafiosa. Da allora è stato possibile condannare a pene severe (da 10 a 26 anni di carcere) chi partecipa a un’organizzazione mafiosa per il solo fatto di farne parte. Le Camere fecero quel grande passo sospinte e trascinate dall’onda di emozione e di sdegno suscitata dall’assassinio di decine di uomini politici che avevano formulato quelle proposte, di magistrati e prefetti che ne invocavano l’attuazione e giornalisti che avevano documentato i crimini e le collusioni dei mafiosi.

Introdurre quel nuovo reato non fu semplice. Fu necessario un impegno collettivo colossale che coinvolse giuristi, politici, parlamentari, intellettuali di vario orientamento politico. Alcuni pagarono quell’impegno con la vita, altri subirono minacce e ritorsioni. Ne mirino finirono anche i loro familiari. Molti iniziarono a vivere sotto scorta, a viaggiare in auto blindate, protetti da scorte armate, persero la libertà di muoversi liberamente. 

Quella legge ha cambiato molte cose. Ha permesso di sgominare organizzazioni criminali potenti fin allora invincibili. Ha consentito di confiscare ai mafiosi beni di provenienza illecita per il valore di centinaia di miliardi. Ha messo fine all’impunità storica dei capimafia. Gli sconti di pena e i programmi di protezione concessi ai mafiosi “pentiti” che accettavano di collaborare con la giustizia hanno consentito agli inquirenti di conoscere i segreti più riposti di Cosa nostra e i nomi dei responsabili di un’infinità di delitti impuniti. Centinaia di potenti boss sono stati processati e condannati a secoli di carcere. Le loro sanguinose e temibili gesta sono state ricostruite e provate nei tribunali e i giornali hanno potuto raccontarle ampiamente ai lettori, come mai prima era avvenuto. 

I DELITTI ECCELLENTI

Quella lunga stagione, esaltante e al tempo stesso angosciosa, si concluse alla fine degli anni Novanta, quando si cominciò a dire che la mafia non era più un argomento interessante per i lettori. Quella stagione è ancora ricordata In Sicilia come “la stagione dei delitti eccellenti”. Fu versato molto sangue. Furono barbaramente uccisi magistrati, politici, giornalisti, sindacalisti, attivisti. Ma proprio da quella stagione molti italiani hanno appreso che cos’è veramente la mafia, quali intrecci con il potere legale e quali connivenze con le autorità pubbliche distinguono la criminalità organizzata dalla criminalità comune, come i boss proteggono i loro affari e i loro delitti: cancellando le prove, depistando le indagini, intimidendo o corrompendo politici, giudici, investigatori, testimoni e giornalisti.  

Quella stagione, culminò nel maxi processo di Palermo (1986-1992) che rimane una pietra miliare, sia per la storia giudiziaria sia per l’informazione giornalistica sulla mafia. 

ARRIVARONO I GIORNALI DEL NORD

Il punto di svolta fu la strage di via Isidoro Carini, l’agguato mafioso con cui furono assassinati a Palermo, il 3 settembre 1982, il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, la sua giovane moglie e l’agente di scorta Domenico Russo. Quella strage scosse l’Italia. Per la prima volta scesero in campo, anche i giornali nazionali. Molti inviati speciali dei giornali del Centro-Nord si precipitarono a Palermo dove restarono a lungo divenendo esperti di mafia, affiancando valorosamente i loro colleghi siciliani, aiutandoli a rompere l’isolamento storico e a raggiungere un pubblico più vasto. Per la prima volta giornalisti di altre regioni divennero cronisti competenti, esperti conoscitori e narratori di questa complessa materia. Per molti anni con le loro cronache, giornali hanno tenuto accesi tutti i riflettori della cronaca su ciò che accadeva in Sicilia, in Calabria, in Campania, mostrando che quei fatti riguardavano direttamente anche il resto d’Italia.

Tuttavia il nuovo spirito non contagiò proprio tutti. Anche alcuni giornali siciliani rimasero immuni, continuarono come prima.  

«Il quotidiano La Sicilia, al di là di ogni pudore – ha scritto Claudio Fava nel libro “La mafia comanda a Catania 1960/1991, Editore Laterza, riuscì per molti anni a sopprimere dai propri scritti la parola mafia: usata raramente, e solo per riferirla a cronache di altre città, mai a Catania. Nell’ottobre del 1982, quando tutti i quotidiani italiani dedicheranno i loro titoli di testa all’emissione dei primi mandati di cattura per la strage di via Carini, l’unico giornale a non pubblicare il nome degli incriminati sarà La Sicilia. Un noto boss, scriverà il quotidiano di Ciancio: Nitto Santapaola, spiegheranno tutti gli altri giornali della nazione. Il nome del capomafia catanese resterà assente dalle cronache della sua città per molti anni ancora: e se vi comparirà, sarà solo per dare con dovuto risalto la notizia di una sua assoluzione. O per ricordarne, con compunto trafiletto, la morte del padre». 

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