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Querele temerarie: usare il risarcimento punitivo

La proposta di Vito Zincani, ex procuratore di Modena, fa leva su una sentenza della Cassazione del 2017 che ha aperto uno spiraglio

Per disincentivare il dilagare incontrastato delle querele e delle cause temerarie e intimidatorie, bisogna scoraggiare fortemente chi presenta accuse pretestuose e infondate. Le misure finora proposte non bastano. Contro chi abusa di questo strumento di giustizia per intimidire i giornali e i giornalisti il giudice dovrebbe essere autorizzato a usare con più energia la leva patrimoniale. A proporre la linea dura è il magistrato Vito Zincani che, martedì 12 novembre 2019, a Bologna, al corso di formazione sul “Diritto di cronaca” intitolato alla memoria di Guido Columba, che si è svolto Bologna per iniziativa dell’Ordine regionale dei Giornalisti dell’Emilia Romagna, ha indicato una sentenza innovativa della Cassazione (la n.16601 del 2017) come “uno spiraglio” importante che apre la strada in questa direzione, cioè per utilizzare il risarcimento danni non solo a scopo indennitario ma anche punitivo.

Come fare? Innanzi tutto, bisognerebbe valutare in modo più ampio il danno arrecato al giornalista, quando viene accusato di diffamazione senza che ci siano i precisi presupposti, quando il querelante o chi l’ha citato in giudizio si oppone all’archiviazione o integra ripetutamente le denunce, e alla fine l’accusato viene prosciolto. In questi casi, per fare giustizia non basta una semplice sentenza di proscioglimento, ci vuole un risarcimento. Inoltre, dice Zincani, bisognerebbe impedire, penalizzando questi comportamenti, che il querelante o l’attore della causa condannato a versare un risarcimento, non lo faccia nei termini indicati, sia necessario fargli un’ ingiunzione o addirittura fargli causa per ottenere il pagamento dovuto. Il querelante temerario che non versa nei termini stabiliti il risarcimento stabilito dal giudice dovrebbe subire il raddoppio o la triplicazione della somma dovuta e in alcuni casi il blocco dei conti delle carte di credito, come avviene già in numerosi altri paesi nei quali il diritto lo consente. 

“Sono arrivato a questa convinzione – spiega il magistrato – quando, durante un convegno internazionale, qualcuno mi chiese come mai in Italia la metà delle cause civili per risarcimento danni sono intentate per ottenere il pagamento di una somma dovuta in forza di una precedente sentenza. Non lo sapevo e mi sembrava incredibile. Ma poi ho controllato le statistiche ed è così. Perciò il problema si pone non soltanto per le cause per diffamazione contro i giornalisti”.

Vito Zincani ora è in pensione ed è impegnato a Bologna, con la sua Scuola Zincani, nella formazione forense e al concorso per entrare in magistratura. E’ stato Procuratore della Repubblicadi Modena e ha sostenuto l’accusa in importanti processi: da giudice istruttore ha firmato il rinvio a giudizio alla base dei processi per la strage del 1980 alla stazione di Bologna. Si è occupato anche dell’inchiesta sulla Uno Bianca e, in Corte d’Assise d’appello, degli esponenti delle nuove Br condannati per l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi. E’ esperto di reati finanziari, ed è stato reggente della Procura della Repubblica di Parma, durante l’inchiesta sulla Parmalat.

Vito Zincani ha parlato con passione civile di questi problemi. Ha detto, fral’altro, che anche i dati forniti da Ossigeno sulle querele temerarie impongono di agire nella direzione da lui indicata. Quei dati dicono che nel 2016 risultavano ogni anno 5904 procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa conclusi con il 92% di prosciolti, e una crescita del fenomeno dell’8% annuo.  A questi dati, recentemente Ossigeno aggiunto quelli dell’Istat, secondo i quali il numero delle querele per diffamazione a mezzo stampa è raddoppiato in cinque anni. 

“Il risarcimento del danno – ha detto il magistrato – dovrebbe essere non solo un indennizzo per i danni materiali subiti ma anche una punizione per comportamenti gravi come quello di chi fa causa a un giornalista per intimidirlo”. Ciò, spiega, accade già in altri Paesi, dove ad una condanna seguono subito il sequestro di alcuni beni se il risarcimento non viene effettuato nei termini disposti dal giudice.

“In Italia in tema di risarcimento del danno siamo in grave ritardo, sia per quanto riguarda l’entità, sia per le sanzioni verso chi non lo corrisponde. Da noi vale il principio dell’importo puramente indennitario, cioè in nessun caso può essere chiesto più dell’importo del danno effettivo accertato, neppure se per ottenerne il pagamento si devono attendere anni e promuovere una causa. Invece nei Paesi anglosassoni non è così, si applicano compensazioni punitive”. Se si devono attendere anni per il risarcimento, ha aggiunto, si determina un vantaggio per chi è in torto e bisogna impedire che ci sia questo vantaggio.

Bisogna tenere conto del fatto che chi presenta una querela per diffamazione manifestamente infondata “non ha lo scopo di ottenere la condanna del giornalista. Sa bene lui stesso che non lo otterrà. Ma – ha sottolineato Zincani  – sa di poter ottenere un effetto intimidatorio, sa che così può fermare anche giornali di grande importanza” che pubblicano notizie a lui sgradite. Perché le ondate di cause e querele pesano sulle finanze dei giornali.

Il magistrato è favorevole alla depenalizzazione della diffamazione a mezzo stampa. Basta punirla come illecito civile, dice. Ma a patto di punire severamente quelle forma di uso improprio dell’informazione che si manifesta con la diffusione consapevole e deliberata di notizie false e denigrare qualcuno, per distruggere la sua credibilità,  o per “intossicare” l’informazione o le indagini giudiziarie. Insomma quella che è indicata comunemente come la macchina del fango e che attualmente è punibile soltanto come una forma aggravata di  diffamazione. Zincani sarebbe favorevole a farne un reato distinto, punito severamente, come ha proposto nel 2015 la Commissione Parlamentare Antimafia e come sostiene anche Ossigeno per l’Informazione. ASP

(ha collaborato Luciana Borsatti)

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