Questo episodio rientra tra le violazioni verificate da Ossigeno per l'Informazione

Calabria. Giornalista linciato sui social. Ha detto in tv che al suo paese c’è la ‘ndrangheta

Antonio Sisca vive a Filadelfia, scrive di mafia da decenni e ha subito molte minacce – Spiega a Ossigeno perché ha reagito con una querela 

OSSIGENO 23 maggio 2024 – In un’intervista al Tg regionale della Calabria del 16 febbraio, il giornalista Antonio Sisca, 77 anni, collaboratore della Gazzetta del Sud da 36 anni, ha affermato che in Calabria, nella zona del Vibonese in cui vive, c’è la n’drangheta. Sui social molti utenti hanno reagito accusandolo di avere danneggiato l’immagine del territorio. Uno di loro lo ha pesantemente insultato, tanto che il giornalista lo ha querelato per diffamazione aggravata.

IL CONTESTO – Antonio Sisca conosce bene il territorio in cui vive. Da decenni scrive di mafia per la ‘Gazzetta del Sud’, ha ricevuto più volte minacce di morte e danneggiamenti ai propri beni. Ma non si è lasciato condizionare, non ha mai smesso di denunciare la forte presenza mafiosa in un comprensorio che conta poco più di settemila abitanti.

Intervistato al Tg regionale da Emanuela Gemelli sull’invio al Comune di Filadelfia da parte del prefetto di Vibo Valentia, Paolo Giovanni Grieco, della Commissione d’accesso agli atti, per accertare se vi fossero infiltrazioni mafiose e illeciti vari, lui ha risposto che la maggior parte della gente nel paese è onesta, ma la mafia c’è, è sotto gli occhi di tutti, come dimostrano 6 omicidi e 6 casi di lupara bianca avvenuti negli ultimi 25 anni e tanti arresti nelle operazioni antimafia.

ANTONIO SISCA – “Una semplice affermazione, non confutabile, mi ha messo ancora una volta nel mirino, e ha scatenato un vero linciaggio mediatico nei miei confronti su Facebook, sulla pagina “Sei di Filadelfia se” – ha raccontato il giornalista a Ossigeno –. Una persona mi ha definito “pseudo giornalista in cerca di pubblicità e di 50 euro per l’articolo dati dal giornale. Morto di fame”. Un’offesa gratuita che non merito. Ho raccontato questa difficile realtà per 36 anni, l’ho fatto senza mai nascondere la verità, e ne ho subito le pericolose conseguenze. Per questo ho denunciato chi ha scritto quelle parole. Mi consola il fatto di avere ricevuto anche tanti attestati di solidarietà, da persone del paese, da colleghi, e anche da chi vive lontano dalla Calabria”.

Del giornalista e della sua lunga battaglia per la legalità, Ossigeno si è occupato già 15 anni fa. Antonio Sisca fu intervistato, insieme ad altri colleghi, da Roberta Mani e Roberto Rossi per un reportage sui cronisti minacciati in quella terra bellissima e difficile che è la Calabria. Dal Rapporto Ossigeno 2009, riportiamo un estratto nel quale Antonio Sisca si racconta a cuore aperto e descrive le minacce, le intimidazioni e l’aggressione che ha subito per i suoi articoli contro le cosche egemoni nel vibonese. L’inchiesta precisa e dettagliata di Roberta Mani e Roberto Rossi, ancora oggi attualissima, fa uscire dal cono d’ombra dell’isolamento e illumina di luce cruda la difficile realtà di chi cerca di raccontare la verità e ne paga le conseguenze in prima persona. Con coraggio, come Antonio Sisca fa da più di trent’anni, oggi come ieri.

Laura Turriziani

Alcuni brani dal Dal Rapporto Ossigeno 2009

«La lupara bianca te la metteremo in bocca. Smettila di scrivere, giornalista di merda, sbirro di merda, altrimenti te la vedrai brutta». Una busta bianca, recapitata a casa con posta ordinaria. Dentro una lettera. Antonio Sisca, 60 anni, corrispondente dal vibonese della ‘Gazzetta del Sud’ rilegge quella frase dal verbale di denuncia, seduto nel suo salotto di Filadelfia, 5.800 abitanti sulle colline alle spalle di Pizzo Calabro con vista sul mare. La legge con tono calmo, quasi rassegnato. Non è la prima volta.
Negli ultimi 10 anni ha ricevuto una quindicina di intimidazioni: l’auto bruciata, proiettili di pistola e di fucile calibro 22, telefonate minatorie, incontri a tu per tu con alcuni «notabili della ’ndrangheta»,  persino un’aggressione con prognosi di 5 giorni.

«Qui il giornalista  è colpito perché racconta la verità e ai signori della ’ndrangheta questo non piace» – spiega – «subisco minacce perché mi occupo di mafia, droga, racket delle estorsioni, ma soprattutto perché ho scritto dei cinque casi di lupara bianca che tormentano questa zona. Decine di articoli, decine di appelli delle madri che chiedono di riavere almeno i resti dei figli». Filadelfia, la Plaza de Mayo di Vibo. Anche qui ci sono  i «desaparecidos». Ragazzi che scompaiono nel nulla. Quarantuno dagli Anni Ottanta. L’ultimo è Valentino Galati, ex seminarista, custode di un locale notturno. Due anni fa è uscito per andare al lavoro, non è più tornato. Antonio Sisca si è occupato anche di lui. Ha addirittura ipotizzato un movente, forse una vendetta, forse una storia d’amore proibita con la moglie del boss, e indicato i nomi dei responsabili. Puntuale, lo scorso settembre,  è arrivata l’intimidazione: «La lupara bianca te la metteremo in bocca».

Storie dimenticate. Storie di violenza, di regolamenti di conti tra cosche lametine, vibonesi, catanzaresi. Storie di ’ndrangheta. La cronaca del 2009 in Calabria si apre con il sequestro di un ragazzo di 24 anni picchiato e bruciato vivo. È in rianimazione. Si chiama Cristian Galati, è il fratello di Valentino. I tre aggressori sono stati arrestati. Uno, secondo gli inquirenti, è affiliato al clan Anello, che controlla il territorio di Filadelfia e delle zone limitrofe. È molto attivo nel traffico internazionale di stupefacenti. Cristian lotta tra la vita e la morte nel centro grandi ustionati di Bari. È stato punito per aver incendiato l’auto del mafioso, che forse riteneva coinvolto nella scomparsa del fratello. Il suo errore è stato di vantarsi dell’impresa su internet. L’ordine è partito. Andava eliminato. Antonio Sisca ha un filo diretto con la madre dei Galati. «È una donna distrutta».

È sabato pomeriggio. La moglie è in cucina, prepara il sugo di carne. Il figlio ci interrompe e chiede le chiavi della macchina. Sisca lo saluta. «Ho paura per lui» – dice – «c’è stato un periodo che se non era puntuale, io e mia moglie entravamo nel panico. Qui si vive sempre nell’incubo. Si ha a che fare con persone senza scrupoli. Quando ti aggrediscono o ti minacciano arrivano i cori di solidarietà, ma quando si tratta di proteggere un cronista che lavora in questa terra si fa davvero poco».

Nel suo studio Sisca ha un grosso raccoglitore dove tiene articoli e denunce. L’ultima è datata 12 settembre 2008. È il racconto di un’aggressione. «Eravamo io e mia moglie in centro a Filadelfia. Si avvicina un uomo e capisco subito le sue intenzioni. “Ti faccio vedere io, mi dice, stai attento a quello che scrivi o te la farò pagare” e comincia a picchiare. Riusciamo a infilarci in un negozio. Lui viene fermato e portato in caserma. È parente di un trentottenne morto di droga, trovato in un campo con la siringa e la bustina ancora vicino. Nessun  dubbio per i carabinieri. Overdose. Ma quell’uomo voleva punirmi perché in un articolo di qualche giorno prima avevo riportato la notizia». In Calabria si rischia anche per questo.
(Roberta Mani e Roberto Rossi, ‘Calabria, l’informazione a rischio pallottole’).

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