Querele. Il ddl diffamazione in marcia verso il binario morto

Che cosa può accadere dopo che il governo ha chiesto al Senato di rinviare la discussione –  Il commento di Giuseppe F. Mennella

OSSIGENO 21 aprile 2024

LA NOTIZIA – Il governo, in Commissione Giustizia del Senato, ha chiesto il rinvio dell’esame del disegno di legge sulla diffamazione. Dopo le polemiche dei giorni scorsi sugli emendamenti presentati dal relatore Gianni Berrino (FDI) che prevedevano il carcere fino a 4 anni e mezzo e che sono stati poi ritirati, la presidente della Commissione, Giulia Bongiorno aveva convocato una riunione di maggioranza per fare il punto. E sembrava si fosse trovata un’intesa puntando tutto sul “titolo e la rettifica”, ma senza prevedere la detenzione. Il governo, invece, oggi ha chiesto di rinviare perché “c’è bisogno di altri approfondimenti”. (ANSA – 17 aprile 2024)

IL COMMENTO DI GIUSEPPE F. MENNELLA

Il Sudafrica ha depenalizzato il reato di diffamazione a mezzo stampa. Lo avevano già fatto lo Zimbabwe nel 2016 e il Lesotho nel 2018.

Partiamo dall’Africa meridionale per parlare dell’Italia. Già, l’Italia? Che accade da queste parti, anzi che accade nella commissione Giustizia del Senato della Repubblica? Qui si discute – anzi si discuteva – di diffamazione, di carcere per i giornalisti, di querele e azioni civili intimidatorie. Una storia senza fine che va avanti da venticinque anni. Se non ci fosse Un posto al sole sarebbe la telenovela più longeva. Puntuale è arrivato l’ennesimo rinvio del dibattito. Lo ha chiesto il governo dopo la malafigura del relatore – un improvvido e assetato di galera fratello d’Italia – autore di un pacchetto di emendamenti niente male. In sintesi: il governo ha scippato al parlamento la “riforma” del sistema sanzionatorio del reato di diffamazione. Non si fida di quei dilettanti allo sbaraglio dei commissari di maggioranza.

Che cosa si può prevedere?

La cosa più ovvia che può accadere è vedere un film già trasmesso negli ultimi decenni: i disegni di legge che vorrebbero abolire il carcere per i giornalisti (al costo però di multe salatissime e azioni civili senza limiti di risarcimento) verrebbero dirottati su un binario morto. Il 17 aprile il governo ha chiesto un rinvio di venti giorni per presentare le sue proposte. Non resta che attendere.

Mettiamo il caso invece che l’esame parlamentare riprenda: Ipotesi? Le tracce esistono e sono quelle lasciate dalla discussione che c’è stata in commissione Giustizia il 17 aprile, subito dopo la richiesta del governo di avocare a sé la pratica.

Iniziamo dall’opposizione: Il Pd – con gli interventi dei senatori Walter Verini e Alfredo Bazoli – ha avvertito che «l’esigenza centrale da considerare dovrebbe essere la piena tutela del lavoro dei giornalisti, della libertà di stampa e più in generale della libertà di manifestazione del pensiero, in linea con le determinazioni assunte dalle istituzioni europee. La problematica del ripristino della reputazione andrebbe perimetrata per evitare che si tramuti, in concreto, in un’indebita limitazione della libertà di stampa attraverso querele intimidatorie nei confronti dei giornalisti. La legge già oggi offre al diffamato numerosi strumenti per tutelarsi, laddove, per contro, il giornalista risulta spesso esposto a querele esperite con scopo dichiaratamente intimidatorio.»

È evidente in questo argomentare il richiamo alle direttive, ai trattati e alle convenzioni internazionali ed europee. In particolare, la giurisprudenza della Corte dei diritti umani che insiste perché gli Stati depenalizzino il reato della diffamazione, riservando la previsione del carcere soltanto a casi di eccezionale gravità come l’incitamento all’odio e l’istigazione alla violenza. Principi giuridici pienamente accolti dalla Corte costituzionale italiana con la sentenza 150 del 2021 con la quale – dopo aver abrogato l’articolo 13 della legge sulla stampa (fino a sei anni di carcere e in aggiunta la multa fino a 50mila euro) – suggerisce al legislatore di prevedere il ricorso alle sanzioni civili e disciplinari in luogo di quelle penali. Dunque, la Consulta non esclude la depenalizzazione del reato di diffamazione.

Ma, con l’aria che tira nel nostro paese, questa scelta non verrà nemmeno posta sul tavolo del dibattito parlamentare.

E ora la maggioranza. Che intende fare? Dalla lettura del resoconto del 17 aprile possiamo dire: nulla di buono. Notiamo incidentalmente che, quando il governo ha scippato il disegno di legge dalle mani della maggioranza, il relatore stranamente non ha aperto bocca. Forse era distratto, o forse era meglio per lui stare zitto, considerato che all’origine della mossa governativa ci sono proprio i suoi emendamenti “più carcere peri giornalisti”. Dagli interventi della presidente della Commissione, Giulia Bongiorno (Lega), e del viceministro Paolo Sisto si capisce che il governo e la maggioranza intendono sparare a pallettoni contro giornali e giornalisti. E in un modo insidioso e inquietante. Propongono che la polpa della nuova legge sulla diffamazione punti sulla rettifica immediata, senza titolo, senza risposta e senza replica e sulla titolazione degli articoli. In entrambi i casi sono scelte che non competono al cronista autore dell’articolo. Se una richiesta di rettifica debba essere pubblicata lo decide il direttore responsabile. La titolazione non è mai a cura dell’autore del pezzo, se non in casi rarissimi, e dunque la responsabilità penale e civile cade in testa (ancora una volta) al direttore responsabile.

Cosa vuol dire? Che si fa partire l’effetto intimidatorio dall’alto per poi farlo discendere a cascata. L’ordine ai redattori di stare prudenti e accucciati arriverà dal vertice del giornale preoccupato di dover affrontare cause penali e civili costose e lunghe. E se il direttore avrà la schiena dritta ci penserà l’editore a richiamare tutti all’ordine perché la legge già prevede che ai risarcimenti provvedono in solido editore, direttore responsabile e autore (se noto). Il cerchio si chiude: il chilling effect (l’effetto agghiacciante del diritto dei cittadini a essere informati) si dispiegherà pienamente con una norma apparentemente di buon senso, ma in realtà insidiosa e pericolosa.

Ecco che cosa sta accadendo in Italia, mentre in Sudafrica il presidente Cyril Ramaphosa firma la legge che depenalizza il reato di diffamazione a mezzo stampa. Nella parte meridionale di quel continente avevano già provveduto Zimbabwe e Lesotho. GFM

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