Editoriale

L’arretratezza legislativa all’origine del sequestro delle pagine delle Iene

di Andrea Di Pietro e Giuseppe F. Mennella – Perché la Cassazione non poteva decidere diversamente nel caso che ha contrapposto il virologo Burioni al programma di Mediaset. Da troppi anni Parlamento e governi non sanno come adeguare la normativa sulla stampa alle (ex) nuove tecnologie. Inutili perfino le sollecitazioni della Corte Costituzionale

OSSIGENO – 1 giugno 2021 – Una sentenza della quinta sezione penale della Corte di Cassazione (n. 20645 del 2021) ha confermato l’ordinanza del tribunale del riesame di Milano che, a sua volta, aveva confermato il decreto del Gip che aveva disposto il sequestro preventivo della pagina web del sito internet che ospitava il link a una pregressa puntata de Le Iene, dove veniva offesa la reputazione del virologo Roberto Burioni.

In particolare, nel servizio de Le Iene si prospettavano dubbi, confluiti anche in un esposto del Codacons, circa l’esistenza di potenziali conflitti di interesse dello scienziato, dubbi che riguardavano l’attività di consulenza ad aziende private sulle misure anti-Covid e la circostanza che il querelante era al contempo fondatore, ispiratore e consulente esterno della Società privata Pomona Ricerca Srl.

In questa vicenda giudici e magistrati hanno dovuto misurarsi con le sentenze a sezioni unite, sia civili sia penali, che, tra il 2015 e il 2016, hanno definitivamente equiparato l’informazione cartacea all’informazione on-line, sia per quanto riguarda i diritti sia per quanto riguarda i doveri.

Infatti, la sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Civili n. 23469, pubblicata il 18 novembre 2016, rendeva uniforme l’interpretazione della legge in materia di sequestro preventivo e procedimenti cautelari sommari aventi a oggetto testate giornalistiche telematiche. Quello delle Sezioni Unite Civili fu un pronunciamento uniforme al precedente del 2015 delle Sezioni Unite Penali (sentenza n. 31022) che avevano già stabilito il principio di diritto secondo cui – ricorrendo tutti i tratti distintivi della testata giornalistica cartacea – non potesse ammettersi alcuna disparità di trattamento, nei diritti e nei doveri, tra stampa tradizionale e stampa on-line in materia cautelare. Ciò in quanto le differenze del supporto utilizzato sono del tutto irrilevanti ai fini del riconoscimento delle garanzie costituzionali. In sostanza, il cartaceo e il web – quando sono prodotti editoriali finalizzati all’attività di informazione professionale diretta al pubblico – sono in egual modo sottoposti alla normativa di rango costituzionale.

Quello che nel caso Le Iene-Burioni ha destato perplessità è il fatto di aver applicato e poi mantenuto il sequestro preventivo di una trasmissione televisiva che, pur non essendo una testata giornalistica, è pacificamente considerata una delle principali e più note trasmissioni di inchiesta della televisione italiana.

Dopo aver letto la sentenza, possiamo affermare che la disparità di trattamento della quale sarebbero vittime i giornalisti de Le Iene sembra soltanto apparente. La sentenza della Cassazione in commento applica in modo rigoroso la normativa esistente, sebbene sia del 1948, e nulla avrebbe potuto fare, pur volendo, per accogliere le legittime osservazioni della difesa del programma televisivo, correttamente ispirate alla centralità sostanziale della funzione giornalistica del Programma con consequenziale sacrificio delle forme e delle garanzie dei gerenti in punto di responsabilità civile e penale.

La sentenza valorizza il legame inscindibile tra l’obbligo di registrazione della testata on-line, con l’indicazione del direttore responsabile, giornalista professionista o pubblicista, da un lato, e dall’altro l’individuazione delle responsabilità collegate alle pubblicazioni. Queste ultime sono ritenute dalla Corte indispensabili a rendere operative le garanzie costituzionali di cui all’articolo 21, terzo comma, della Costituzione.

Infatti, scrive la Corte, “svincolata dalla necessaria individuazione del soggetto, professionalmente qualificato, giuridicamente responsabile della pubblicazione, la sottrazione al regime di assoggettabilità a sequestro preventivo perderebbe la sua connotazione di garanzia costituzionale, riconosciuta sulla base di un’interpretazione evolutiva del sistema, per assumere la fisionomia di una sorta di ingiustificato privilegio”.

Infatti, il dato insuperabile è che il programma Le Iene non è una testata giornalistica registrata, né il sito internet che ospitava il link alla puntata “incriminata” è stato registrato come testata giornalistica. Da ciò deriva che il Programma non è tenuto per legge all’individuazione di un direttore responsabile, ma è sufficiente la nomina di un “delegato editoriale” al quale – per il divieto di analogia in malam partem in materia penale – non può certo essere contestato il reato di omesso controllo sulle pubblicazioni ex art. 57 del Codice penale, come avviene per la stampa cartacea, radiotelevisiva o online. Questi aspetti, secondo la Corte, sono ostativi all’estensione delle garanzie costituzionali relative al divieto di sequestro preventivo nelle ipotesi di contestate diffamazioni a mezzo stampa.

Quindi, in punto di diritto, tutto giusto, tutto regolare. Certo, ma non dopo aver detto che il sequestro di un prodotto informativo resta sempre e comunque un atto di censura, una ferita alla circolazione delle notizie, delle opinioni e delle idee. Tanto più che in questo caso siamo nel territorio del sequestro preventivo, cioè prima di una sentenza che abbia accertato responsabilità e responsabili.

Ma c’è altro ancora. Continuiamo a dire e a scrivere ‘nuove tecnologie’ anche se dalla loro introduzione sono trascorsi ormai tre decenni e oltre. Sei-sette lustri nell’assoluta inerzia del legislatore che pure avrebbe potuto e dovuto adeguare le normative ai nuovi (ex nuovi) mezzi di comunicazione di massa e relative tecnologie. Ma nulla è accaduto.

Sono vent’anni che le Camere del Parlamento fingono di voler riformare leggi e codici relativi alla diffamazione e alle relative pene detentive. In questa legislatura, i disegni di legge per abrogare le pene detentive per i giornalisti e sanzionare chi abusa delle cause civili per “fermare la penna” sono bloccati in Senato dall’ottobre del 2020. Sarebbe stata (e sarebbe) ancora l’occasione per aggiornare l’intera materia alle (ex) nuove tecnologie. Intanto, per la prima volta due tribunali hanno sollevato la questione di non legittimità costituzionale delle norme che prevedono il carcere per chi fa informazione. Con un’ordinanza la Consulta ha concesso un anno di tempo al Parlamento per abrogare quelle norme, richiamando la necessità di tener conto «della rapida evoluzione della tecnologia e dei mezzi di comunicazione verificatasi negli ultimi decenni». L’anno scade il 22 di giugno. Nemmeno questo alto richiamo istituzionale è servito. L’acqua è rimasta cheta. In questa palude di arretratezza legislativa alla Cassazione non resta che applicare norme del 1948, quando venivano considerati “stampe o stampati, ai fini di questa legge, tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione”.

Andrea Di Pietro

Giuseppe Federico Mennella

 

 

 

 

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