In tre anni 1371 minacciati in più e nessun intervento

Questa è la Relazione di Alberto Spampinato, direttore di Ossigeno per l’Informazione, il 22 ottobre 2018 nella sala Koch del Senato in apertura della conferenza internazionale “Giornalisti aggrediti, colpevoli impuniti. Allarme dell’ONU”. Si integra con la relazione scritta distribuita con la cartella stampa (vedi)

Innanzi tutto dò il benvenuto ai partecipanti, ai relatori, agli ospiti che vengono da lontano e ai due rappresentanti del governo che sono con noi, il sottosegretario all’editoria Vito Crimi e il sottosegretario all’interno Luigi Vietti, che interverranno fra poco.

Anche quest’anno abbiamo aperto il nostro convegno per la Giornata Internazionale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti ricordando (vedi video Il paradosso Italiano 2 anni dopo) che cosa abbiamo detto negli anni scorsi e aggiornando sia la situazione (che, purtroppo non presenta grandi miglioramenti, come dirò) sia i dati numerici sulle minacce ai giornalisti in Italia.

Ossigeno per l’Informazione, come sapete, è un osservatorio indipendente che fa un’analisi qualitativa e quantitativa del fenomeno e perciò può dire quante minacce ha accertato e documentato dal 2006 in poi, quanti nomi di vittime ha aggiunto di anno in anno alla lista dei minacciati.

Ebbene, la progressione delle minacce accertate è stata continua e ininterrotta. Nel 2015, quando al convegno di cui vi abbiamo mostrato un breve video-riassunto, il contatore di Ossigeno segnava 2350 nomi di vittime di questi attacchi. A ottobre 2016 eravamo arrivati a 3023. Un anno dopo, a ottobre 2017, a 3406, e ora, a ottobre 2018, abbiamo toccato la vetta di 3721 nomi.  Quindi in tre anni abbiamo accertato altri 1371 minacciati. Ossigeno per l’Informazione ha reso noti i nomi delle 3721 vittime: giornalisti blogger piccoli editori fotoreporter colpiti da gravi violazioni della libertà di stampa e di espressione realizzate con minacce, avvertimenti, violenze e abusi.

Che osa si è fatto per porre un freno a tutto ciò mentre il numero delle minacce e delle violazioni accertate continuava a crescere? Nulla. Non è stata realizzata nessuna delle misure prospettate, nel nostro convegno internazionale del 2 luglio 2015 e anche successivamente.

Nel 2015, ad esempio, si chiedeva con forza di correggere e approvare la proposta di legge per eliminare la pena del carcere per i colpevoli di diffamazione a mezzo stampa e impedire l’uso intimidatorio delle querele. Questa importante discussione ha impegnato inutilmente il parlamento per tutta la legislatura 2013-2017. Nel 2016 la proposta di legge all’esame è entrata nel binario morto e nel 2017 è finita nel nulla, come era prevedibile, essendo stata infarcita con misure contraddittorie che probabilmente avrebbero peggiorato la situazione. Eppure ci sarebbe stato il tempo e il modo di correggere la rotta.

Già nel 2013 Ossigeno per l’Informazione aveva pubblicato un dossier descrivendo analiticamente la situazione italiana e richiamando i documenti con i quali le principali organizzazioni internazionali avevano chiesto di correggere la proposta di legge all’esame del parlamento. Poi, nel 2016 Ossigeno per l’Informazione aveva reso noti, in questa stessa sala, dati ufficiali assolutamente inediti sull’andamento negativo dei processi per diffamazione a mezzo stampa in Italia. Quei dati hanno disegnato uno scenario ben più drammatico di quello fino allora noto al Parlamento, sugli effetti concreti della legge tuttora vigente, della legge che il Parlamento era impegnato a modificare da almeno cinque legislature.

Presentando quei dati Ossigeno per l’Informazione richiamò le proposte di correzione formulate negli anni precedenti, basate proprio sugli effetti negativi che questa legge produce, effetti da noi constatati e misurati sul campione di casi concreti studiati dall’Osservatorio. Un anno prima avevamo già mostrato che quella legge produceva molte condanne al carcere. E uno dei problemi principali che quella legge voleva affrontare era la eliminazione della pena del carcere per i colpevoli di diffamazione.

Noi proponevamo misure per realizzare proprio ciò che le istituzioni internazionali sollecitavano e ancora sollecitano: innanzitutto la depenalizzazione completa. Su questo però il Parlamento aveva detto no, non si può fare. Ma si era impegnato a togliere la pena del carcere. Poi, strada facendo, molti parlamentari avevano detto no anche a questo, sostenendo che non fosse necessario in quanto a loro dire la pena del carcere veniva applicata solo sporadicamente e serviva più che altro da spauracchio.

Per contestare queste affermazioni, nel 2015 Ossigeno per l’Informazione ha pubblicato un dossier particolareggiato che dimostrava il contrario. Diceva che invece la pena del carcere era applicata spesso. Negli ultimi tre anni a noi risultavano condanne a circa sette anni di carcere. Quel dossier fece sensazione ma non cambiò le cose. Perciò Ossigeno per l’Informazione tornò alla carica chiedendo al Parlamento di dire come andavano effettivamente le cose nei tribunali. Abbiamo sfidato il governo a pubblicare dei dati ufficiali sull’andamento dei processi per diffamazione a mezzo stampa. Da quella sfida è nata una interlocuzione col Ministero della Giustizia che ha aperto un dialogo con Ossigeno per l’Informazione e ha preso sul serio la richiesta. Così il governo cominciò a cercare quei dati. Si è scoperto così che il Parlamento non li conosceva e neppure il Ministero della Giustizia, che pure ogni anno rende note numerose statistiche sull’andamento dei processi in relazione a vari reati. Nessuno raccoglieva dati sui processi per diffamazione a mezzo stampa.

Finalmente, nel 2016, seguendo le nostre indicazioni, per la prima volta il Governo ha prodotto questi dati e li ha forniti a Ossigeno per l’Informazione autorizzandoci a renderli pubblici. Così sono venuti fuori dei dati veramente impressionanti, che ora vi ricorderò brevemente, perché noi li abbiamo già pubblicati e diffusi ampiamente e quindi potete trovarli sul sito web di Ossigeno per l’Informazione, ma non sui giornali, perché inspiegabilmente questi dati ufficiali del governo di grande interesse non sono stati pubblicati dai giornali italiani.

Le cifre essenziale sono queste: ogni anno in Italia i tribunali trattano circa seimila procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa. Il 90 per cento di essi si concludono con il proscioglimento degli accusati. Il 70% dei processi si concluse in istruttoria con l’archiviazione, l’altro 20 per cento con il proscioglimento nelle fasi successive del processo.

Ciò dice chiaramente che in Italia moltissimi procedimenti per diffamazione a mezzo stampa sono quanto meno infondati, esagerati, impropri se non proprio pretestuosi. I dati del governo dicono pure che ogni anno in Italia 155 imputati per questo reato (in gran parte giornalisti) sono condannati a pene detentive, a una pena mediamente inferiore a un anno di reclusione. Facendo una stima prudente, Ossigeno per l’Informazione ha calcolato che ogni anno in Italia, per questo reato, vengono inflitti complessivamente 103 anni di carcere. Dunque negli ultimi tre anni sono stati comminati 309 anni di carcere e ci sono stati circa 15mila procedimenti giudiziari infondati, pretestuosi, finiti nel nulla.

Queste cifre sono spaventose, fanno paura. Forse per questo i giornali non le pubblicano. Ma queste cifre dicono ciò che di spaventoso succede in questo Paese senza che il parlamento riesca a porvi rimedio. Adesso, con la nuova legislatura, si è ricominciato a discutere, vengono presentate nuove proposte di legge, ma siamo solo alle prime battute. Speriamo che si riesca a fare qualcosa di buono.

Parliamo dunque dell’impunità per i reati commessi contro i giornalisti, riferendoci ovviamente ai giornalisti che fanno correttamente il loro lavoro, nel senso che rispettano le persone di cui parlano, i doveri etici della loro professione, la verità, la lealtà e l’onestà.

Partiamo da un dato drammatico: nel mondo stati uccisi, mentre svolgevano correttamente il loro lavoro, 1010 giornalisti. Questo e altri dati dell’UNESCO sono richiamati qui in questa slide (Inserisci immagine slide) L’agenzia dell’ONU tiene questa triste ma utile contabilità e anche quest’anno sottolinea che il 93 di questi giornalisti uccisi non erano corrispondenti di guerra con l’elmetto in testa e il giubbotto antiproiettile schierati sulla linea del fuoco, ma cronisti locali. Soltanto il 7 per cento erano inviati all’ estero e corrispondenti di guerra. Questo dato dice da solo quanto sia rischioso fare la cronaca locale, parlare di corruzione, di crimine organizzato, degli affari delle cosche e delle mafie locali. Credo che ne parlerà meglio di me il nostro ospite d’ onore, Guy Berger, che è il direttore della divisione dell’UNESCO che si occupa di queste questioni.

Per questi 1010 giornalisti uccisi l’impunità è quasi assoluta: 9 volte su 10 non è stata fatta giustizia. E’ un dato enorme che suscita la nostra indignazione.

Voi sapete che anche in Italia, sono stati uccisi dei giornalisti e che l’osservatorio Ossigeno per l’Informazione per l’Informazione è stato fondato nel 2018 proprio per coltivare la loro memoria e per aiutare a difendersi tutti i giornalisti che subiscono minacce e ritorsioni proprio a causa del loro lavoro. Questi 28 sono inseriti nell’elenco di 1010 nomi dell’Unesco. Essi, con assoluta certezza, stavano svolgendo il loro in modo etico e professionale e sono stati uccisi perché qualcuno voleva impedirlo, aveva paura di ciò che potevano dire, che volevano dire ai cittadini, ai loro lettori. Sono ventotto, undici dei quali undici uccisi in territorio italiano e diciassette all’ estero. Ebbene qual è il livello di impunità per i loro assassini? Un anno fa, in questo stesso luogo, nella analoga celebrazione della “Giornata internazionale per mettere fine all’impunità per i crimini contro i giornalisti”, Ossigeno per l’Informazione ha calcolato per la prima volta questo dato. Risulta un’impunità di circa il sessanta per cento. Quindi la situazione italiana appare migliore di quella internazionale. Però anche da noi ci sono ancora molte impunità da eliminare.

Un anno fa, per la prima volta, Ossigeno per l’Informazione ha fornito anche un altro dato inedito, che quest’anno aggiorniamo. Riguarda l’impunità in Italia per quegli attacchi contro i giornalisti che l’Unesco definisce “non fatali”, cioè per le minacce e le ritorsioni contro i giornalisti. E’ un dato importante perché, come sottolinea l’Unesco, molto chiaramente i giornalisti uccisi rappresentano solo la punta dell’iceberg nell’ uso della violenza per censurare le notizie. In altre parole, per ogni giornalista ucciso ce ne sono molti altri che subiscono attacchi altamente condizionanti per la loro attività, tali da limitare in modo ingiustificabile la libertà di stampa e di espressone. Sono i giornalisti che ricevono una lettera minatoria, vengono aggrediti, picchiati o subiscono abusi ingiustificabili. Quanti sono? E’ difficile dirlo. Soltanto in Italia esistono delle statistiche e delle stime attendibili. Esistono perché Ossigeno dieci anni fa ha cominciato a fare questo censimento con una ricerca attenta e rigorosa, con un accurato fact checking, impegnandosi a seguire con continuità ciò che accade in Italia, documentando tempestivamente anche ciò che i media non riferiscono. Lo facciamo perché questo monitoraggio ci aiuta ad intervenire tempestivamente per assistere e difendere chi si trova in queste difficoltà, sotto attacco e spesso è isolato e non ottiene solidarietà. Da dieci anni Ossigeno diffonde pubblicamente i risultati di questo monitoraggio insieme a numerose analisi e approfondimenti sulla natura del fenomeno, sul trend e sulle misure che appaiono necessarie per impedire gli attacchi e punire i responsabili.

In base a questi accertamenti, in Italia i giornalisti che hanno subito minacce, abusi e altri attacchi dal 2006 a oggi sono 3722. Ossigeno ha pubblicato i loro nomi e ha stimato in modo attendibile che in questo periodo ce ne sono stati molti altri, almeno 15 volte di più. Per restare nell’immagine usata dall’Unesco, 3722 rappresentano la punta dell’iceberg, gli altri 15 volte più numerosi la parte sommersa e non visibile.

Il nostro lavoro di accertamento di questi attacchi si svolge con un metodo scientifico che si è andato affinando anno dopo anno. Soltanto dal 2011 in poi abbiamo cominciato a catalogare e classificare questi episodi registrando anche i reati commessi e altri elementi significativi che ci hanno permesso di fare varie analisi e statistiche fra cui il calcolo dell’impunità.

Così per i 3122 casi accertati fra il 2011 e ottobre 2018 abbiamo potuto calcolare una impunità del 98,3 per cento (vedi prima diapositiva). E’ una impunità altissima, quasi assoluta. Ma dobbiamo aggiungere che negli ultimi dodici mesi le nostre statistiche hanno registrato un sensibile miglioramento della situazione. Per 31 dei 316 attacchi accertati, analizzati, registrati, resi pubblici da Ossigeno negli ultimi dodici mesi c’è stata qualche forma di giustizia: i loro persecutori sono stati individuati, denunciati, perseguiti in alcuni casi condannati. L’impunità risulta dunque del 90,1 per cento. Rimane dunque altissima, deve preoccupare noi e impegnare le autorità a fare di più. Ma siccome Ossigeno siccome fa un lavoro scientifico, noi vediamo qualche segnale positivo in questi dati recenti. Diciamo che se si manifesta questo trend dobbiamo cercare di consolidarlo e forse abbiamo imboccato la strada giusta. A questo punto apro una piccola parentesi per dire che in Italia abbiamo questi enormi problemi di cui stiamo parlando, però per molti versi l’Italia sta meglio di altri Paesi. Ad esempio, nel campo della protezione dei giornalisti, in Italia secondo noi non si fa ancora abbastanza, si deve fare qualcosa di più. Però abbiamo un sistema che funziona molto meglio di quello di altri paesi. Penso, ad esempio, a Malta e alla Slovacchia, ad altri Paesi dove per fortuna non sono stati uccisi dei giornalisti negli ultimi mesi ma nei quali ci sono giornalisti in gravi difficoltà che hanno timore a rivolgersi alle autorità pubbliche. In Italia ciò non accade. In Italia al 31 dicembre 2017 c’erano 19 giornalisti sotto scorta, protetti dalle forze dell’ordine, e altri 167 protetti dalle forze dell’ordine con misure di vigilanza diverse dalla scorta armata. Forse il sottosegretario Gaetti ci può dare dati più aggiornati. La protezione pubblica funziona, ha prevenuto molti attentati. In Italia abbiamo un sistema che funziona, che proteggere i nostri giornalisti, che non se ne occupa soltanto dopo che sono stati uccisi. Non abbiamo problemi ad ammetterlo e lo diciamo con la stessa libertà e sincerità con cui critichiamo le autorità italiane per le loro insufficienze, per spingerle a fare sempre meglio.  Chiudo la parentesi sulla protezione.

Tornando al cambiamento degli ultimi 12 mesi, ne abbiamo avvertito i primi segni a novembre del 2017, dopo il gravissimo attacco di Ostia al giornalista Piervincenzi, il famoso episodio della testata. Lo conosciamo tutti perché l’aggressione è stata video registrata e quel video ha avuto una diffusione virale. Perciò quell’aggressione ha suscitato una mobilitazione pubblica fuori dall’ ordinario. Ci sono stati anche cortei popolari promossi dal sindacato dei giornalisti, da associazioni e forze politiche.

Nei giorni successivi si è verificato un altro grave attacco che ha avuto anch’esso una grandissima eco: le plateali minacce di morte a Paolo Borrometi in Sicilia. Ebbene a fronte di questi due episodi la magistratura è intervenuta con una determinazione che non avevamo ancora visto. Nel giro di pochi giorni sono stati arrestati gli autori delle minacce. C’è stata un’altra novità importante di cui parlerà meglio il nostro avvocato Andrea Di Pietro: agli aggressori è stata contestata l’aggravante del metodo di intimidazione mafioso, sottolineando così il fatto che chi attacca un giornalista non attaccava una singola persona per intimidirla fa una intimidazione rivolta a tutti i giornalisti. In base a questa contestazione, gli aggressori sono stati arrestati e nei mesi successivi alcuni sono stati anche condannati a sei anni di carcere. In questi dodici mesi l’aggravante del metodo mafioso è stata contestata altre due volte. Ciò ha dato l’impressione che si stia affermando un trend che porta a elevare queste contestazioni. Speriamo che sia così. Il dubbio resta perché abbiamo visto anche dei segnali diversi, in particolare nel caso dell’aggressione a Bari alla giornalista della RAI Maria Grazia Mazzola. In questo caso, a distanza di otto mesi, un periodo molto lungo, le indagini brancolano ancora in un modo incerto pur essendoci, a nostro avviso, una serie di elementi che fanno somigliare quell’ episodio agli altri per cui è stata contestata la modalità mafiosa.

Fra gli episodi dell’ultimo anno per i quali le indagini giudiziarie hanno avuto un andamento incoraggiante e perciò rafforzano la sensazione che qualcosa stia cambiando in meglio, che ci sia una maggiore determinazione nel considerare la gravità degli attacchi ai giornalisti c’è quello dell’aggressione a due freelance, il giornalista Nello Trocchia e il suo video operatore. Si trovavano nelle Marche. Mentre stavano realizzando un servizio giornalistico per un programma della RAI sono stati aggrediti e picchiati, le loro attrezzature sono state distrutte. L’aggressore è un familiare della persona di cui loro si stavano occupando in quanto era stato arrestato con l’accusa di gravi reati. Il magistrato che dirige le indagini, ha contestato all’ aggressore il reato di interruzione di pubblico servizio. Ciò è senza precedenti. Nell’ordinanza ha scritto che impedire a un giornalista e a un video operatore di realizzare un servizio per fare conoscere delle informazioni rilevanti ai cittadini, attraverso la radiotelevisione pubblica, è una interruzione di pubblico servizio. Il magistrato ha fatto ciò che Ossigeno chiede da tempo. Secondo noi tutti i giornalisti, non soltanto quelli giornalisti che lavorano per la RAI, svolgono un servizio pubblico ogni volta che fanno il loro lavoro rispettando la verità e l’etica professionale e operando nell’ interesse dei cittadini. Perciò il loro lavoro andrebbe difeso è protetto sempre come tale. Speriamo che questa tendenza trovi altre conferme.

Tutto ciò ci insegna qualcosa: poiché questo cambiamento si è realizzato a legislazione invariata, è evidente che in Italia ci sono leggi e procedure che possono essere applicate meglio e più frequentemente, che ci sono anche delle omissioni. Alcune sono di carattere generale: ad esempio, molte sentenze ci dicono che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di diritto d’informazione raramente è applicata in Italia. Noi pensiamo che non ci sia da parte dei magistrati la volontà di non applicarla, ma ci sia una scarsa conoscenza di questo settore del diritto europeo. Per cui noi vorremmo che la formazione dei giudici e il loro aggiornamento professionale dedicasse più spazio a questa materia, fra l’altro seguendo le indicazioni delle istituzioni internazionali che sono impegnate a promuovere fra tutte le autorità pubbliche, anche fra le forze dell’ordine una vera e propria alfabetizzazione in materia di diritto di informazione (media literacy). Quindi, noi speriamo che le norme esistenti vengono applicate meglio e di più. Ma siamo convinti che ciò non sia sufficiente per proteggere i giornalisti e difendere la libertà di stampa. Perciò Ossigeno ha proposte alcune innovazioni che adesso mi limiterò a richiamare.

Le proposte di Ossigeno

In particolare proponiamo di introdurre nell’ordinamento:

– il reato specifico di “ostacolato accesso all’informazione” per colpire chi deliberatamente agisce in modo da impedire l’esercizio del diritto di informazione e di espressione configurato dall’ articolo 21o della Costituzione e dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo

– un’aggravante specifica per i reati commessi a questo scopo

– in materia di diffamazione a mezzo stampa, la piena depenalizzazione, l’eliminazione della pena detentiva, un deterrente efficace per scoraggiare l’ uso pretestuoso a scopo intimidatorio delle querele delle cause per diffamazione a mezzo stampa, la netta distinzione fra diffamazione colposa e dolosa (riprendendo la proposta della Commissione parlamentare antimafia del 2015, che noi condividiamo, di sdoppiare il reato), dare efficacia alla rettifica quale condizione di non procedibilità, e altre  misure positive contenute nei disegni di legge discussi nella precedente legislatura.

Ci permettiamo di fare queste richieste da osservatori indipendenti che non scrivono disegni di legge, ma conoscono il fenomeno e avvertono la responsabilità di dire cosa può influire positivamente e di ricordare problemi che sono emersi anche nel dibattito politico e poi si sono persi per strada. Ad esempio ciò che molti di noi, insieme ai giornalisti dell’Unità che ne sono stati danneggiati, hanno scoperto soltanto nel 2015 dalla grave crisi editoriale del quotidiano l’Unità: quando l’ editore si trova in difficoltà economiche, come è successo all’ editore dell’ Unità, e chiede un concordato preventivo si libera da ogni obbligazione esistente nei confronti dei giornalisti suoi dipendenti, anche delle responsabilità per le spese legali e i risarcimenti che avrebbe dovuto sostenere per i processi per diffamazione a mezzo stampa. Lo sanno bene decine di giornalisti che erano stati querelati per gli articoli pubblicati in una fase politica molto accesa, quella dei governi Berlusconi durante la quale L’ Unità era uno dei principali quotidiani di opposizione politica. Quando furono pubblicati quegli articoli quei giornalisti, in base a un patto aziendale, avevano l’assistenza dell’editore per la copertura delle spese legali. Quando l’editore è uscito di scena l’hanno persa e hanno dovuto fare fronte da soli a quelle spese. Si è scoperto che quando l’editore fa un concordato fallimentare quei patti non valgono più e le obbligazioni che ne derivavano non sono traferite al nuovo editore che prosegue la pubblicazione. Ciò ha avuto gravi conseguenze sul patrimonio personale dei giornalisti. Molti per fortuna sono stati prosciolti ma hanno dovuto pagare le spese legali. Altri sono ancora sotto processo e per qualcuno l’Ufficio legale di Ossigeno sta provvedendo alla difesa. Altri invece sono stati condannati e devono rispondere anche per la parte di risarcimento danni che sarebbe spettato all’ editore. Quando vene alla luce questo problema, nel 2015, fu uno shock. Si aprì un grande dibattito. Tutte le forze politiche dissero: bisogna cambiare la legge, bisogna introdurre una norma giuridica per porre riparo. Non è stato ancora fatto. Bisogna farlo. Ma bisogna fare anche qualcosa di più. Secondo noi bisogna intervenire sul codice civile per affermare che l’editore e sempre direttamente e in primo luogo responsabile verso i terzi per le cose che ha pubblicato agli effetti dei danni per diffamazione, che lo è l’editore e non il giornalista autore della pubblicazione. E’ ciò che già avviene, ad esempio, per un industriale che ha prodotto e commercializzato un aspirapolvere. Se l’aspirapolvere causa dei danni a un a qualcuno che lo ha acquistato, costui chiede i danni a chi glielo ha venduto, non certo all’ ingegnere che lo ha progettato o all’operaio che lo ha fabbricato. Ecco su queste cose c’ è molto da lavorare.

Finché questi problemi non saranno risolti noi giornalisti, dobbiamo rendercene conto, continueremo a lavorare camminando su un filo sottile sospeso nel vuoto senza avere nemmeno una rete protettiva che possa salvarci se quel filo si spezza non per colpa nostra ma per le difficoltà del nostro editore.

Come ridurre il numero di liti giudiziarie

Di fronte alla marea di processi per diffamazione a mezzo stampa in gran parte inappropriati, che ingolfano la macchina giudiziaria, che come abbiamo visto hanno un effetto intimidatorio e punitivo anche sui giornalisti prosciolti, noi pensiamo che nel nostro Paese, bisogna aprire una via extra giudiziaria per risolvere i conflitti fra i giornali e i lettori. Bisognerebbe creare quei sistemi di autoregolazione che esistono già in molti Paesi specialmente, nel mondo anglosassone, e assolvono questa funzione. Si chiamano “Media Accountability Systems” (sistemi di responsabilizzazione dei media) e hanno la funzione di mantenere alta la credibilità dei media e la loro responsabilità verso la società. Comprendono Consigli della Stampa (Press Councils) in cui sono rappresentati in modo paritario giornalisti, editori, rappresentanti dei consumatori-lettori. Questi organi si autofinanziano e in caso di reclamo dei lettori regolano i conflitti applicando un Codice di condotta condiviso fra gli aderenti. Decidono rapidamente e senza costi per i ricorrenti. Possono chiedere a un giornale in difetto la pubblicazione di precisazioni e di rettifiche e l’ammissione dell’errore insieme alle scuse pubbliche e in caso di inadempienza rendono noto il rifiuto di fare ammenda su tutti i media aderenti. Poiché la pubblicazione di un giudizio negativo di questi organismi danneggerebbe il giornale che ha rifiutato la correzione dell’errore, di solito il giudizio del Consiglio della Stampa viene accettato e il conflitto viene risolto senza l’intervento della magistratura. In altri Paesi queste cose funzionano e incidono moltissimo sulla credibilità dei media e sulla loro responsabilità verso i lettori.

Funzionerebbero anche in Italia? So che molti sono scettici. Dicono: qui c’è un’altra mentalità. Io invece credo che anche da noi funzionerebbero e che siano veramente necessari nella situazione in cui ci troviamo. Perché noi siamo di fronte ad una crisi del sistema editoriale che è accresciuta dalla crisi di credibilità dei giornali. Bisogna fermare questa spirale che produce molti danni.

La crisi di credibilità dei giornali e dei giornalisti

La crisi di credibilità dei giornali è il primo ostacolo che incontriamo quando, insieme alla FNSI e ad altri organismi, cerchiamo di promuovere solidarietà pubblica nei confronti di giornalisti colpiti da attacchi violenti o comunque assolutamente ingiustificabili e immotivati. In questi casi, la solidarietà dovrebbe essere generale. Invece molte volte ci sentiamo rispondere: no, io non do solidarietà a chi lavora per un giornale fazioso che fa campagne unilaterali, a un giornale che ha una linea politica che non condivido. Questo descrive la situazione ultra polarizzata in cui ci troviamo. Questa situazione impedisce di vedere che in certe situazioni, quando un giornalista subisce attacchi violenti per ciò che ha scritto o ha detto, non dobbiamo difendere solo le nostre idee, ma le persone attaccate, la pacifica convivenza e la libertà di espressione. Quando un giornalista viene minacciato di morte o preso a bastonate o anche querelato in modo palesemente pretestuoso, non importa ciò che pensa quel giornalista, né cosa hanno scritto lui e il suo giornale.

Noi pensiamo che il sistema dei Press Council possa concorrere a ripristinare la credibilità dei giornalisti e dei giornali e, nell’immediato, a ridurre dell’80 per cento il numero delle querele e delle cause per diffamazione a mezzo stampa infondate che, nell’ insieme, formano ogni anno una massa di seimila e passa procedimenti e in gran parte sono reclami che magari hanno qualche fondamento, invocano un diritto di replica, la pubblicazione di una precisazione, una dialettica, ma non hanno nulla a che fare con la diffamazione.

Per creare questi sistemi di autoregolazione non è necessario approvare una legge né sono necessari finanziamenti pubblici: basta la buona volontà e l’accordo fra le parti coinvolte. Ossigeno fa appello alla loro responsabilità e si mette a disposizione quale facilitatore di queste intese.

A quali condizioni è utile un monitoraggio delle minacce ai giornalisti 

L’ultima questione che voglio affrontare riguarda il monitoraggio degli attacchi ai giornalisti che Ossigeno svolge ormai da dieci anni. Quando abbiamo cominciato volevamo solo dimostrare quanto fosse utile tenere sotto attenta osservazione e in modo oggettivo questo fenomeno, sia sul piano qualitativo che quantitativo. Questo lo abbiamo ampiamente dimostrato: abbiamo mostrato che questo monitoraggio è di per sé un sistema di protezione dei giornalisti dai più gravi attacchi subiscono, dall’isolamento che segue a questi attacchi e li rende molte volte efficaci. Abbiamo mostrato che questo genere di monitoraggio è la base essenziale per ogni sistema di protezione che non può funzionare né intervenire tempestivamente e in modo esteso se non si conosce ciò che accade sul terreno. Quando abbiamo cominciato a cercare i mezzi per costruire l’osservatorio, le principali obiezioni che abbiamo dovuto superare erano queste: un’osservazione oggettiva e indipendente non è possibile, nessuno ha abbastanza soldi per farlo. Noi abbiamo dimostrato che queste obiezioni erano sbagliate. Abbiamo mostrato che è possibile essere obiettivi e che le risorse che mancano possono essere in gran parte compensate dal volontariato. Il nostro progetto non era e non è di proseguire questa dimostrazione all’infinito, di mettere per sempre sulle spalle di una piccola associazione di volontariato onlus un compito così gravoso. In coerenza con tutto ciò noi abbiamo chiesto che questo compito lo assuma un’agenzia pubblica indipendente di questo paese, noi pensiamo all’AGCOM, in collaborazione con le organizzazioni della società civile competenti come la nostra. Noi mettiamo a disposizione la nostra esperienza, la nostra conoscenza, i nostri esperti. Secondo noi il lavoro di monitoraggio di Ossigeno deve continuare e avere uno sbocco istituzionale di questo tipo, quello auspicato dal Consiglio d’ Europa nel 2016 con una Raccomandazione specifica rivolta a tutti i governi. Quella Raccomandazione chiede di creare queste agenzie proprio per questi scopi. Speriamo che si vada avanti in questa direzione. Nel frattempo noi continueremo con i mezzi che abbiamo.

Una piattaforma pubblica per segnalare le minacce

Il nostro monitoraggio sarebbe molto più efficace se le istituzioni pubbliche creassero uno sportello a cui presentare le segnalazioni sapemdp di avere avvertito tutti gli enti coinvolti con varie e distinte resposzabilità. E’ una necessita che avvertiamo da tempo e richiede una risposta urgente. La cosa più semplice da fare sarebbe  creare una piattaforma pubblica su cui ospitare le segnalazioni rilevanti di attacchi ai giornalisti e alla libertà di stampa.

Lo chiediamo da tempo e abbiamo intensificato la campagna nell’ ultimo anno, avendo individuato una difficoltà nel segnalare alle varie autorità i fatti più gravi che accadono, una difficoltà poiché ogni volta bisogna individuare la persona giusta da avvertire e la modalità più opportuna. Sarebbe ben diverso se ci fosse un indirizzo unico attraverso il quale degli informatori opportunamente accreditati potrbbero informare contestualmente tutte le autorità. Gli informatori accreditati possono essere associazioni come la nostra, la FNSI, l’Ordine dei giornalisti e altre associazioni del settore. In questo ci ispiriamo alla Piattaforma analoga creata dal Consiglio d’ Europa che ha una struttura giuridica e istituzionale definita e funziona da alcuni anni a livello internazionale e potrebbe accrescere la sua efficacia interfacciandosi con una Piattaforma italiana. Speriamo che si possa creare presto.

Con ciò penso che di avere presentato il quadro generale e di avere fornito una base alla discussione.

Alberto Spampinato

181022

 

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