Editoriale

Che cosa abbiamo scoperto con il monitoraggio

Il segretario di Ossigeno illustra la drammatica condizione dei giornalisti che emerge dalla documentazione di 3865 episodi di intimidazioni e minacce


Questo articolo è stato pubblicato in occasione della Giornata Mondiale per la libertà di stampa sul bimestrale “il Telespettatore” (n.56 – marzo-aprile 2019) con il titolo “Ossigeno al diritto di cronaca”

Tremilaottocentosessantacinque: è il numero dei giornalisti e degli operatori dell’informazione che subisce minacce in Italia. I dati, aggiornati all’inizio di aprile 2019, sono stati raccolti e verificati dalla Onlus Ossigeno per l’Informazione, l’Osservatorio che dal 2006 racconta le vicende dei cronisti minacciati in Italia a causa del loro lavoro e inserisce i loro nomi nella “Tabella”, una sorta di contatore che si aggiorna senza sosta.

Un trend confermato dai dati raccolti nei primi tre mesi del 2019: Ossigeno ha verificato 73 minacce in 74 giorni. Non c’è regione immune dalle violazioni alla libertà di stampa. È bene abbandonare l’idea che le minacce, i danneggiamenti e il clima di astio nei confronti di giornalisti, blogger, fotocronisti e film-maker siano prerogativa esclusiva del Sud o di Campania, Calabria e Sicilia, i territori italiani dove operano alcune delle organizzazioni criminali più conosciute nel mondo.


Copertina de Il Telespettatore n.56 – marzo-aprile 2019

Negli ultimi anni, ad esempio, l’Osservatorio ha registrato nel Lazio un incremento delle intimidazioni e dei tentativi di ostacolare la libertà di stampa: nel 2017 è stato proprio il Lazio il territorio italiano dove è stato segnalato il maggior numero di minacce. È interessante osservare che, in quello stesso anno, la tipologia di attacco più utilizzata per tentare di mettere a tacere i giornalisti è stata quella degli abusi legali, ovvero il ricorso strumentale a norme di legge per minare il diritto all’informazione. In questa categoria rientrano le cosiddette querele temerarie e le richieste di risarcimento danni esorbitanti.

Ma se i dati, da un lato, dimostrano che il fenomeno degli attacchi non accenna ad arrestarsi, dall’altro è interessante notare come esso abbia subito modifiche nella sua forma e nella sua sostanza. Il ricorso alle azioni legali per fermare la penna è probabilmente oggi la modalità più utilizzata. La legge lo consente, non costa e, nonostante le incessanti richieste di modifica e le proposte di legge per eliminare la pena detentiva per i colpevoli di diffamazione a mezzo stampa e impedire l’uso intimidatorio delle querele e delle
azioni civili di risarcimento danni, nulla è accaduto. Per comprendere la gravità del fenomeno, nel 2016, Ossigeno – con i dati forniti in esclusiva dal Ministero di Giustizia – ha realizzato la ricerca “Taci o ti querelo”. La cifra essenziale, emersa da questo studio, è che ogni anno i tribunali trattano circa seimila procedimenti penali per diffamazione a mezzo stampa. Il 90 per cento di essi si concludono con il proscioglimento degli accusati. Il 70 per cento dei processi si conclude in istruttoria con l’archiviazione, l’altro 20 per cento con il proscioglimento nelle fasi successive del processo.

A diverse modalità di “aggressione” corrispondono diverse modalità di aggressori. Il ricorso alla legge, e non soltanto all’intimidazione violenta o alla minaccia mafiosa, rende l’idea di quanto i poteri – la politica, la magistratura, l’amministrazione pubblica, l’imprenditoria, la finanza – abbiano interesse a tenere sotto controllo la stampa. A minacciare non è più soltanto la grande criminalità organizzata. Almeno, non direttamente. Gli episodi violenti, gli incendi, il furto e la sottrazione degli strumenti di lavoro, rappresentano ancora un’importante fetta nella percentuale degli attacchi, ma non sono più prevalenti. Negli ultimi anni, l’Osservatorio di Ossigeno per l’Informazione ha dedicato una particolare attenzione alle minacce online. Nel 2018 questo tipo di pressione indebita ha rappresentato l’11 per cento del totale; il 40 per cento era rivolto alle donne che operano nel mondo dei media. Gli attacchi alle giornaliste si sono verificati in sette regioni, ma il 71 per cento di essi si è concentrato in due di esse: Lazio e Sicilia.

La storia del giornalismo (in tutto il mondo) si può narrare come storia dei suoi rapporti con i poteri. Non è un caso che la stampa venga definita il cane da guardia della democrazia. Qui, a ben vedere, è la radice della decisione dell’Assemblea generale dell’Onu di proclamare il 3 maggio Giornata internazionale per la libertà di stampa. Si celebra dal 1993 su proposta della Conferenza Generale dell’UNESCO per ricordare il Seminario della stessa Agenzia per promuovere l’indipendenza e il pluralismo della stampa africana (Promoting an Independent and Pluralistic African Press) tenutosi dal 29 aprile al 3 maggio del 1991 a Windhoek (Namibia). L’evento produsse la Dichiarazione di Windhoek. Che contiene proprio i principi in difesa del diritto all’informazione, del pluralismo e dell’indipendenza dei media, declinati come requisiti di una vera democrazia e come diritti fondamentali dell’uomo. Non si tratta di semplici commemorazioni, riti da celebrare un giorno all’anno. Le campagne su grandi temi possono produrre risultati positivi e concreti. Negli ultimi anni, due Paesi africani – il Burkina Faso e la Liberia – hanno abolito le leggi che prevedevano le pene detentive per i giornalisti. E l’Inghilterra e il Galles hanno addirittura depenalizzato il reato di diffamazione a mezzo stampa. Il principio-base è lo stesso: il fatto stesso che una norma possa contemplare il carcere per i giornalisti costituisce un deterrente della libertà di stampa e, dunque, un grave danno per i cittadini che hanno diritto a essere informati in modo completo, soprattutto su ciò che avviene nelle stanze non visibili dei poteri.
In Italia è dal 2001 che il Parlamento discute disegni di legge per abrogare le leggi che prevedono le pene detentive per il reato di diffamazione a mezzo stampa (sino a sei anni di reclusione). E per introdurre norme che scoraggino il ricorso ad azioni legali pretestuose, temerarie, infondate contro gli operatori dei media. Tanti anni, tanti dibattiti, tanti impegni, tante raccomandazioni giunte dalle istituzioni europee, ma nessun risultato. Bisogna porsi una domanda, introdurre un dubbio: siamo certi che il potere politico e
di governo voglia davvero eliminare questa Spada di Damocle che dal 1930 (l’anno dei codice penale) pende sulla testa dei giornalisti? Forse dove non vuole o non può giungere il Parlamento arriverà la Corte Costituzionale. Un giudice del Tribunale di Salerno – chiamato a decidere una causa per diffamazione a mezzo stampa – ha ritenuto manifestamente non infondata la questione di illegittimità costituzionale delle norme che prevedono le pene detentive per la diffamazione a mezzo stampa, chiedendo il giudizio dell’Alta Corte.

GFM

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