Diritto all’informazione. I ritardi che l’Italia deve spiegare all’ONU

Le inadempienze in materia di diritto dell’Informazione indicate da Ossigeno alla Commissione Diritti Umani in vista della verifica quadriennale di novembre 2019 a Ginevra

Sul rispetto dei diritti umani e, in questo ambito, anche sul rispetto del diritto all’informazione, ogni quattro anni i paesi aderenti alle Nazioni Unite devono rispondere alle obiezioni presentate da altri Stati e dalle organizzazizoni non governative sull’effettivo adempimento delgli obblighi previsti dai Trattati e degli standard internazionali. La questione viene discussa dalle autorità di ciascun paese davanti alla Commissione Diriti Umani dell’ONU, in apposite sessioni che si svolgono a Ginevra, nell’ambito della Revisione Periodica Universale (UPR).

Il prossimo esame per l’Italia è fissato per il 4 novembre 2019. In vista di questo appuntamento, così come quattro anni fa, il Comitato Italiano per i Diritti Umani, organizzazione non governativa che riunisce 40 associazioni fra cui Ossigeno per l’Informazione (CIDU) ha presentato una serie di osservazioni su ogni singola questione, esponendo i problemi da risolvere e i possibili rimedi.

Ossigeno ha compilato il capitolo che riguarda il diritto all’informazione. Anticipiamo qui di seguito questo contributo, che sarà reso noto nei prossimi giorni insieme a quelli delle altre associazioni in un Rapporto di cui raccomandiamo la lettura a chiunque voglia sapere con obiettivita e con precisioni quali sono i ritardi e le indempienze dell’Italia in questo vasto campo che spazia dai diritti delle donne e dell’infanzia, dall’accoglienza dei migranti alla tutela della libertà dei stampa e alla protezione dei giornalisti da intimidazioni e minacce che impediscono loro di riferire ciò che essi apprendono e sarebbe utile, necessario e doveroso comunicare ai cittadini attraverso i media, senza per questo rischiare l’incolumità, il lavoro i patrimonio personale.

L’Italia non soddisfa numerosi standard dell’Onu in materia di diritto all’informazione. Perciò fin dalla primo appuntamento per la UPR le sono state rivolte numerose  Raccomandazioni, la maggior parte delle quali non è stata accolta dal governo italiano. Esse riguardano in particolare la libertà dei media, il conflitto di interessi fra politica ed editoria, la governance del servizio pubblico radiotelevisivo, il regime penale della diffamazione a mezzo stampa, l’uso pretestuoso e intimidatorio delle querele per diffamazione, la protezione dei giornalisti oggetto di minacce da parte della criminalità organizzata.

Nel corso della II UPR, a ottobre del 2014, il governo italiano ha accettato le seguenti tre raccomandazioni in tema di informazione:

  1.  CONFLITTO DI INTERESSI – “Promuovere e tutelare il pluralismo dei media, includendo nella normativa in materia, il principio di incompatibilità degli eletti o di chi ricopre un incarico governativo con la proprietà e il controllo dei mass-media”
  2.  IMPUNITA’ – “Indagare e perseguire tutti i colpevoli di violenza e di crimini di intimidazione contro i giornalisti”.
  3. 3 RIFORME LEGISLATIVE – “Prendere le misure giuridiche necessarie per proteggere i giornalisti e indagare tutti gli atti di intimidazione e di violenza contro i giornalisti”.

Per quanto riguarda la regolazione del conflitto d’interesse, numerosi problemi sono rimasti irrisolti. Con la proposta di  legge Bressa (1) vedi http://leg17.senato.it/service/PDF/PDFServer/BGT/00966134.pdf  che è stata discussa ma non è stata approvata, il Parlamento ha cercato di integrare la legislazione vigente oggetto delle raccomandazioni,  cioè la  “Legge Gasparri” (N.112 2004) e la “Legge Frattini” (N.215 2004). La proposta di legge Bressa proponeva di regolamentare in modo più incisivo il conflitto di interessi e l’incompatibilità fra le cariche elettive e di governo, da una parte, e i proprietari o controllori dei mass-media, aggiornando le norme della Legge Gasparri e della Legge Frattini. La proposta di legge Bressa è stata approvata in prima lettura il 25 febbraio 2016 dalla Camera dei Deputati, ma non è entrata in vigore perché il Senato non l’ha ratificata.

Per quanto attiene la governance del servizio pubblico di informazione radiotelevisiva, la normativa è stata modificata dal Parlamento con la legge N. 220/2015 (2) vedi  https://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/01/15/16G00007/sg) ma non nel senso indicato nella raccomandazione. La riforma è stata approvata dal Parlamento il 22 dicembre 2015, con il parere positivo del Governo Renzi. Con queste norme l’esecutivo ha ulteriormente rafforzato la sua influenza sulla RAI. Infatti, due dei sette componenti del Consiglio d’amministrazione sono nominati dal Governo, due dalla Camera, due dal Senato, uno dai dipendenti dell’azienda. Inoltre, l’amministratore delegato, dotato di ampi poteri, è nominato dal Consiglio d’amministrazione, su indicazione del ministro dell’Economia.  In tal modo, l’Italia non ha accolto le osservazioni e le raccomandazioni formulate da tempo dagli organismi internazionali, in particolare dallo Special Rapporteur on the promotion and protection of the right to freedom of opinion and expression del Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU che ha riproposto precedenti valutazioni negative sulla legislazione italiana in questa materia, in particolare quelle dell’Alto Rappresentate per i Media dell’OSCE e della Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa.

IMPUNITA’ dei colpevoli di violenza e di intimidazione contro i giornalisti – In Italia si verificano con continuità moltissime violenze, abusi e intimidazioni contro i giornalisti. L’impunità dei colpevoli, alcune inadempienza e la natura di alcune leggi incoraggiano gli autori di questi atti. È un fatto documentato dal monitoraggio di Ossigeno per l’Informazione. Questa ONG fra il 2006 e il 15 ottobre 2019 ha reso note in dettaglio 3965 gravi violazioni nei confronti di altrettanti giornalisti e blogger (erano 3700 fra il 2006 e il 2018), la metà delle quali compiute con reati perseguibili. Nel 2017 la stessa ONG ha pubblicato dei dati inediti secondo i quali l’impunità per i colpevoli di queste violazioni è altissima, pari al 98,3 per cento.

Nel 2018, in un rapporto consegnato all’UNESCO vedi ( vedi anche questo ) Ossigeno ha segnalato un lieve ma significativo miglioramento di questo tasso di impunità (0,4 per cento) attribuibile a tre fattori: la maggiore sensibilità pubblicato dovuta al costante monitoraggio del fenomeno, una maggiore determinazione dell’apparato giudiziario e investigativo, la contestazione agli accusati delle più gravi violenze di un’aggravante che autorizza l’arresto. Questa riduzione dell’impunità si è realizzata a legislazione invariata. Ciò mostra che anche negli anni precedenti si sarebbe potuto fare di più. Ulteriori progressi sarebbero possibili diffondendo fra i giudici e gli inquirenti una migliore conoscenza delle norme del diritto internazionale in materia di informazione e delle prerogative che leggi e trattati riconoscono ai giornalisti e agli altri operatori dei media.

RIFORME LEGISLATIVE

Le riforme legislative e procedurali prospettate con le raccomandazioni e ancora non attuate, sono  necessarie, sia per ridurre l’impunità, sia per creare un  deterrente in grado di frenare il flusso ininterrotto di violenze e abusi che anche nel 2019 si verificano a ritmo quotidiano, come ha documentato il monitoraggio di Ossigeno per l’Informazione.

La situazione richiede la modifica di leggi altamente punitive verso i giornalisti e il pieno riconoscimento giuridico delle prerogative che devono essere riconosciute anche a livello giudiziario a chi fa informazione giornalistica nell’interesse pubblico esercitando i diritti nei limiti dettati dal’Articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’unico miglioramento a livello legislativo si è avuto nel 2016, quando il Parlamento ha depenalizzato il reato d’ingiuria. Invece, ha lasciato inalterati la Legge sulla stampa n.47 del 1948 e gli articoli del codice penale e di procedura penale che consentono di strumentalizzare le querele per diffamazione a mezzo stampa a scopo intimidatorio e di ritorsione, producendo un forte chilling effect.

Per i colpevoli di diffamazione a mezzo stampa, la legge italiana prevede la multa o in alternativa la pena detentiva (fino a sei anni di carcere). Consente inoltre risarcimenti sproporzionati, di importo teoricamente illimitato, senza particolare documentazione del danno patrimoniale e non patrimoniale effettivamente subito. Per modificare queste norme in modo da accogliere le raccomandazioni ricevute dal Governo italiano, il Parlamento ha discusso per quattro anni, dal 2013 al 2017, senza tuttavia approvarlo, il disegno di legge Costa (vedi). Questa proposta di legge proponeva di eliminare la previsione della pena detentiva per i colpevoli di diffamazione. In secondo luogo, conteneva alcune norme necessarie per mettere un freno al frequente uso distorto, a scopo intimidatorio, delle querele per diffamazione. La situazione è pertanto rimasta quella per cui l’Italia ha ricevuto le raccomandazioni. Una situazione che produce un forte chilling effect e l’oscuramento di molte notizie incisive di interesse pubblico.

Nel 2016, la gravità degli effetti dellA legislazione vigente in materia di diffamazione a mezzo stampa è stata riconosciuta dal Ministero della Giustizia, che ha reso noti i seguenti dati: (vedi) nel periodo 2011-2014, ogni anno, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, le Corti di primo grado hanno condannato a pene detentive, 155 persone (in massima parte giornalisti). La pena detentiva media è stata di otto mesi (quasi sempre sospesa). Il 90 per cento degli accusati (5904 ogni anno) è stato prosciolto, dopo 2-4 anni di processo. Le spese legali sono rimaste spesso a carico degli accusati. Il numero di questi procedimenti aumenta ogni anno dell’otto per cento. Molti procedimenti strumentali, pretestuosi, infondati sarebbero evitati se ai giornalisti fosse riconosciuto come esimente l’esercizio del diritto di informazione come configurato dall’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalla giurisprudenza della CEDU.

PROTEZIONE DEI MINACCIATI – Le forze dell’ordine proteggono con auto blindate e scorte armate 585 personalità ad alto rischio. Fra i protetti ci sono 21 giornalisti. Altri 170 giornalisti, bersaglio di minacce non-fatali, sono protetti da agenti che sorvegliano le loro abitazioni o i loro posti di lavoro. Migliaia di altri giornalisti minacciati non hanno alcuna protezione. La situazione è stata descritta nel Rapporto “Molta mafia, poche notizie” (vedi )

INCHIESTE PARLAMENTARI – La Commissione Parlamentare Antimafia ha svolto due indagini, una nel 2012 l’altra nel 2014-2015 (vedi), sulle intimidazioni e le minacce ai giornalisti italiani. In base agli accertamenti, basati su un Rapporto di Ossigeno e decine di audizioni, ha descritto le difficoltà, i rischi, i problemi insoluti dei giornalisti italiani. A conclusione di ciascuna indagine, e ha formulato alcune raccomandazioni urgenti al Governo e Parlamento, che finora non ne hanno tenuto conto. Fra l’altro, la Commissione ha chiesto: maggiore protezione dei giornalisti; una verifica della effettiva proprietà dei media per i quali si sospettano infiltrazioni mafiose; il pieno riconoscimento del segreto professionale ai cronisti, la modifica del reato di diffamazione a mezzo stampa, un freno all’uso intimidatorio delle querele.

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